L’antieuropeismo è esistito durante tutto il corso del dopoguerra. Antieuropeisti erano i comunisti, come lo erano i fascisti. Oggi l’Unione Europea è un gigante economico e commerciale, per altri un temibile competitore. Sarebbe strano se non ci fossero, gli antieuropeisti, e se i nostri competitori non li finanziassero e aiutassero. Ma non sono questi gli antieuropeisti che preoccupano. Quelli pericolosi sono i vili e gli incapaci, l’assieme di classi dirigenti che inadeguate al compito e culturalmente sguarnite non hanno saputo far altro che presentare i vincoli della realtà come fossero trovate dell’euroburocrazia. Questo stesso concetto, tante volte evocato, incarna l’eurodeficienza di chi lo utilizza.
Sono i tremuli del “siamo per l’Europa, ma non questa”. E quale? Certo che tutto può e deve essere migliorato (abbiamo bisogno di federalizzare la politica economica, il debito, le frontiere), ma guai a confondere i deficit istituzionali e politici dell’euro con il rifiuto di tenere in conti in ordine e la brama di spendere quel che non si ha. C’è chi chiede un’Europa diversa e più solidale, ma poi agisce per conservare gli squilibri che ne impediscono la nascita. Guai a far confusione fra la necessità di migliorare l’integrazione con la voglia di preservare gli ecosistemi nazionali nei quali far fiorire la conservazione dei vizi e la difesa delle rendite improduttive. Sono conservatori di quel che ci ha stroncato le gambe, mentre è necessario liberarle. Sia per correre che per mollar loro qualche calcio.
Sperano di salvarsi, quanti hanno fallito, contando sull’aiuto dell’antieuropeismo e delle forze anti sistema, chiamandole a ragione della loro sussistenza. Noi dobbiamo salvare l’Italia, da chi la cavalca senza governarla. Da chi cerca alibi per non rispondere delle parole vuote che usa.
Tre cose occorre avere chiare: chi siamo; quali sono i nostri problemi; come risolverli. Se ci si sbaglia sull’identità si va fuori di testa. Se ci si sbaglia sulla diagnosi si va fuori strada. Se ci si sbaglia sui rimedi si peggiorano le cose.
Chi siamo?
Noi italiani siamo la seconda potenza industriale d’Europa. Noi europei siamo il 7% dell’umanità, produciamo il 25% della ricchezza globale annua e consumiamo il 50% della spesa pubblica sociale globale.
Viviamo nella zona più ricca, sana, longeva, democratica e libera del mondo. Certo che abbiamo dei problemi, ma se continuiamo a descriverci come miserabili sull’orlo della morte per inedia, afflitti dal dispotismo e inarrestabilmente destinati al declino, otterremo un solo risultato: meritarcelo.
Abbiamo vinto la lunga guerra fredda, succeduta alla seconda guerra mondiale. In quella vittoria abbiamo avuto un ruolo importante noi italiani, con decisioni difficili, come lo schieramento degli euromissili. Quando furono firmati i Trattati di Roma nessuno poté neanche pensare a quale ruolo trovare per i cittadini dell’est, che erano e sono europei. Vedere sventolare la bandiera europea a Praga e a Budapest, dove prima avanzavano i carri armati sovietici, dovrebbe farci fremere d’orgoglio.
Oggi in tanti credono di dire cose intelligenti parlando della crisi dell’Ue. Sono ottusi, perché non capiscono la differenza con il passato: non sono le nostre istituzioni, ma il Mondo. È la globalizzazione. Anche quella è una nostra vittoria. La globalizzazione ha enormemente diminuito le distanze e le differenze, nel mondo. Dal 1990 ci sono, nel Mondo, 1 miliardo 300 milioni di persone in meno che crepano di fame. Ne rimangono troppe. Anche uno è troppo. Ma ce ne sono 1 miliardo e 300 milioni in meno. Dovremmo gioirne, non esserne atterriti.
Quali sono i nostri problemi?
Mentre nel Mondo le distanze di reddito si accorciavano da noi, nella parte già ricca, si allungavano. Le paure che vediamo crescere non sono immaginifiche, hanno basi reali. Solo che la scena è piena di soggetti che usano quelle paure e le alimentano. Fanno, loro, più pena che paura.
Se leggiamo l’indice di Gini, ovvero il misuratore dell’equità nella distribuzione dei redditi, scopriamo che l’Italia, prima dell’intervento delle politiche fiscali, quindi dei prelievi e dei trasferimenti di Stato, è fra i Paesi più equi d’Europa. Se lo leggiamo dopo le politiche fiscali ci accorgiamo che siamo fra i più iniqui. La cosa paradossale è che siamo circondati da soggetti politici che reclamano politiche fiscali per combattere l’iniquità. Vanno combattute quelle politiche fiscali, se si vuole più equità. E la cosa più produttivamente equa che esiste è il premio al merito, al lavoro, alla competenza, al coraggio, che da noi vengono umiliati e taglieggiati. Tanti sono convinti che sia segno di bontà proteggere i falliti, essendone la migliore incarnazione. Così creando quel che pesa sulle nostre vite: lo Stato fallimentare. Abbiamo fatto di più, con le banche fallite: abbiamo inventato i truffati senza truffatore, in modo da mettere i soldi mancanti in conto al contribuente o alle altre banche, indebolendole. Poi dicono: non va bene la norma europea. No, non va bene la vergogna italica. Non va bene che lo Stato presti ancora soldi a una società fallita, che ha nel proprio azionariato due banche. Alitalia ha un senso se fa volare le persone, non se fa volatilizzare i loro soldi.
L’Italia degli anni fra i 50 e i 70 si trova nei libri di storia economica, per la straordinaria capacità di crescita. Il nostro debito pubblico era nell’intorno del 40%. La lira non veniva svalutata, c’erano i cambi fissi. Fra i 70 e i 90, anche per far fronte a fenomeni che qui non possiamo analizzare, si acquistò il consenso con la spesa pubblica e si pompò competitività apparente con le svalutazioni, portando il debito al 100%. Da lì in poi il debito è divenuto così grande da crescere per i fatti suoi. I bassi tassi d’interesse, portati dall’euro, non sono stati usati per risanare, ma per alimentare l’illusione che si potesse continuare l’andazzo, in un’orgia dissennata di manovre d’aggiustamento, capaci solo di sfasciare e intimamente corrompere i conti pubblici.
Sono un giogo intollerabile i vincoli europei? Solo incapaci e dissennati possono crederlo. Quello è l’argine oltre il quale si apre lo sprofondo, in un precipitare che non travolgerebbe solo la moneta o la finanza, ma trascinerebbe via i pilastri stessi della civiltà e della convivenza. Senza la copertura europea, che oggi s’incarna nella Banca centrale europea, quell’argine sarebbe già stato superato.
Negli anni dell’euro, e ancora oggi, le esportazioni italiane sono cresciute. Siamo il secondo campione europeo delle esportazioni. A dimostrazione non solo che il motore produttivo mantiene la sua potenza, ma che il cambio e la valuta non solo non ci hanno indebolito, ma ci hanno rafforzato. La bassa crescita che ci affligge non è dovuta all’Italia che lavora, ma a quella che ristagna e fa da zavorra. A cominciare dall’amministrazione pubblica.
Sono umilianti i vincoli? Ma magari fossero stati effettivamente tali anche per la nostra malagiustizia! Magari la Corte Europea Diritti dell’Uomo avesse potuto vincolarci, oltre che condannarci! Abbiamo un numero di magistrati per abitante superiore alla media europea, un personale coadiuvante più numeroso, ma abbiamo anche i processi più lunghi, con il governo che s’industria ad allungarli ancora di più, spostando in avanti quell’argine di civiltà, la prescrizione, che già il diritto romano aveva fissato. Magari ci fosse un legal compact, un judicial compact a impedirlo. Senza argini ci riduciamo a continuare a chiedere di avere più magistrati e più cancellieri, aumentando la spesa pubblica, mai misurando il merito e il demerito di ciascuno, tenendoci il solo sistema del mondo civilizzato in cui il titolare dell’azione penale è collega di chi giudica. Questa è l’infamia svincolata.
L’incertezza del diritto è certezza dell’abuso, è inquinamento sociale ed economico. Questo si traduce in un terribile svantaggio competitivo, in un costo economico, oltre che di civiltà. Questo è il paradiso dei colpevoli e l’inferno degli onesti. Ma c’è di più: questo è il vero spread che ammazza l’Italia, la macchina dello Stato, la pubblica amministrazione e l’amministrazione giudiziaria che s’industriano follemente a supporre di potere impedire il peccato commettendo il crimine d’annientare la libertà d’impresa.
Sento dire che bisogna finirla con l’austerità e il rigore. Quando mai ci sono stati? Qui si è chiamato “rigore” il banale ostacolo a continuare a indebitarsi per mangiarsi i soldi della spesa pubblica. Rigore? La spesa pubblica corrente ha continuato a crescere, anche al netto degli interessi (che sono diminuiti, perché il solo vero taglio alla spesa pubblica non l’abbiamo fatto noi, ma la Bce). Qui si chiama sovranità il diritto di mangiare quel che i figli dovranno produrre, nel frattempo interdicendo loro l’ingresso nel mondo del lavoro e mandandoli in scuole concepite non perché possano studiare, ma perché si possa pagare chi ci lavora.
Sento dire che occorre finirla con il liberismo, cui si aggiunge “selvaggio”. Quale? Un Paese in cui la spesa pubblica copre la metà del pil ha sperimentato il liberismo quanto una biscia i viaggi interspaziali.
Poi mi guardo attorno e vedo che Silvio Berlusconi chiede di aumentare le pensioni, Beppe Grillo di pagare chi non lavora e Matteo Renzi di trovare nuove tipologie umane cui elargire bonus. Il primo cresciuto dalle suore, il secondo che confondeva le fatture con il malocchio e il terzo che ha debuttato alla Ruota della fortuna. E che vi aspettavate?
Questi sono i nostri problemi, ingigantiti da una politica che confonde il male con il rimedio. Un po’ come i drogati, che puntano a stare meglio drogandosi.
Come ne usciamo? Terminato il lungo ciclo elettorale, nel 2018, l’Italia sarà il Paese più instabile e più indebitato. Restiamo con il cerino in mano. Per questo ci declassano.
Se non vogliamo rassegnarci a subire un default, che sarebbe più istituzionale che di bilancio, e se non vogliamo rassegnarci a subire una ulteriore piallata patrimoniale, dobbiamo sbrigarci a metterla, la patrimoniale. Ma sullo Stato. Nessuno pensa di vendere il Colosseo, ma il colossale patrimonio immobiliare inutilizzato e costoso sì. Senza mettersi a fare i piazzisti, come un presidente del Consiglio fece con le auto blu, che poi manco riuscì a vendere, in compenso prendendo un nuovo aereo di Stato, che non riuscì a volare. Occorre radere al suolo la giungla degli intrecci proprietari, con lo Stato che intralcia sé stesso, mettere il vendibile in un unico contenitore e offrirlo in gara internazionale, per la valorizzazione e vendita. Se ne ricaverebbe subito molto, con cui abbattere il debito. Il resto poi. Così come per il patrimonio mobiliare: vendere quote di società pubbliche per un valore di 5 miliardi l’anno, mentre se ne pagano 12 o 16 volte tanto d’interessi sul debito, è la formula certa dell’immiserimento. Si agisca liberando il mercato dalla mano pubblica e facendo cassa nel mentre si consente ad altri di produrre ricchezza. Servono privatizzazioni non vendite. E chi crede siano sinonimi mostra tutta la propria nullità. Questa è la differenza fra compiere scelte politiche e rinviarle in eterno, nel frattempo manomettendo i conti. E questa è la via anche per tornare a fare investimenti pubblici produttivi, senza ostacoli ideologici, ma senza neanche credere che aumentare il già mostruoso debito abbia qualche cosa a che vedere con lo sviluppo e il benessere.
Ne usciamo liberando il mercato da vincoli insensati, che inseguendo il presunto bene conquistano il sicuro male. E liberando i più giovani da regole e oneri destinati a proteggere e retribuire quelli delle generazioni precedenti. E invece, accidenti, basta un bau bau referendario della Cgil e il governo s’arrende senza combattere e cancella i voucher. Avremmo dovuto farlo, quel referendum, e avremmo visto da che parte sta l’Italia. Non si deve fuggire dagli elettori, si devono cacciare gli eletti tremebondi e bugiardi, o fanfaroni e doppiamente bugiardi.
Per uscire dalla paura si deve anche rompere l’alleanza avvelenata fra l’egoismo degli europei che non hanno frontiere esterne e l’affarismo di chi intrallazza pure sugli immigrati. Il principio è chiaro: i profughi hanno diritto al soccorso, gli emigranti economici no. Questi ultimi, ovviamente anch’essi umani e da rispettare, si fanno entrare se conveniente. Altrimenti si respingono. Dobbiamo farlo assieme, noi europei: con una giurisdizione e un’amministrazione comuni, per distinguere gli uni dagli altri ed avere la forza di dare un senso alle frontiere. Buonisti e cattivisti sono soci in commedia, che poi è una tragedia dell’umanità.
Dentro i nostri confini vale il diritto, senza distinzioni, pietismi o esenzioni. Per questo la giustizia è essenziale alla civiltà. Noi abbiamo costruito, nel tempo e con il sangue, un prodotto eccellente e straordinario, che si chiama: Stato laico, casa comune di credenti in fedi diverse e non credenti. Se venissimo meno al principio del rispetto e della convivenza, con tutti, non dovremmo attendere d’essere sopraffatti, perché ci saremmo distrutti da soli. Se venissimo meno al principio della sicurezza e non discriminazione, senza giustificazionismi di alcun tipo, avremmo perso senza combattere. Invece vinceremo noi, il mondo in cui una ragazza può intabarrarsi o scoprirsi, un ragazzo può pregare o cantare, mentre nessuno può negare di farsi identificare da un pubblico ufficiale.
Sono anni che si diffondono paura e rabbia, in un mefitico convergere di destra e sinistra. I candidati estremi, in giro per l’Europa, non si distinguono, perché sono simili, se non identici: reclamano stizzosamente un ritorno al passato, dimenticando che quando era presente lo detestavano. Paura e rabbia chiamano protezione e reazione. Queste chiamano le chiusure. Così, passo dopo passo, usando linguaggi tonitruanti e alticci, invocando la difesa del nostro mondo quelle forze ne sbriciolano le più grandi e importanti conquiste.
Non manca solo una forza politica, che abbia la dignità di idee e parole diverse, che sappia rispondere a chi sostiene che l’Europa ha dei guasti: non ho alcun timore delle cose imperfette, perché si possono migliorare, mi fa paura chi le vuole perfette, perché saranno stabilmente pessime.
In Italia non scarseggiano i partiti, ma le idee chiare. Si deve puntare sulle idee, non baloccarsi con le alleanze. I contenuti prima degli schieramenti. Sono venti anni che si lavora agli schieramenti lasciando credere che siano dei contenuti, con il risultato di scontri feroci, da cui nascono governi contraddittori e impotenti.
Manca una classe dirigente all’altezza, fatta di cattedre, opinioni, comunicazione e, certo, anche politici. O, meglio, non manca: è finita in ombra, mentre luccicano i protagonisti della paura e della rabbia. Ma sono statue di sale: luccicano come oro, al sole, salvo sciogliersi nel fango, con la pioggia.
Non possiamo aspettare che cambi il tempo, dobbiamo cambiarlo noi, ciascuno per quel che gli compete.
Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
@DavideGiac
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