Non esiste un’interpretazione univoca del corano, ma praticare una attività agonistica è consentito psrché all’interno di alcuni precetti religiosi
Mohamed Maalel
Il concetto di corpo femminile è entrato tra i precetti di una società sempre più allarmata dalla posizione del femminile nella nostra cultura. È usuale infatti pensare al corpo femminile come un prodotto simbolico della cultura stessa, che nel giro di molti anni è passato da corpo proibito a corpo socialmente accettato.
Dunque la donna – nella visione sportiva – assume il ruolo di un soggetto che compie l’azione di rendersi attiva, scappando via dai timori e dalle contraddizione di una cultura sempre più maschilista, in quanto rappresenta la donna nelle sue vesti protettive e casalinghe. In tutte le culture moderne – da quelle occidentali a quelle orientali – lo sport è praticato sia da uomini che da donne, in rispetto di alcune regole morali ed etiche.
Nel caso della figura della donna sportiva nei paesi di fede musulmana, il discorso cambia in quanto non c’è una vera e propria regolamentazione religiosa, tutt’al più una serie di norme morali che variano da paese a paese – e dal loro modo di interpretare le norme stesse. Sempre più paesi islamici conservatori hanno aperto le loro frontiere allo sport agonistico, donandoci brillanti atlete che sfidano pregiudizi e stereotipi legati ad un’immagine di “sottomissione” che, nei fatti concreti, non trova riscontro, non per le dirette interessate quantomeno.
Le Olimpiadi 2016 hanno visto una presenza femminile importante, anche da parte di donne musulmane le quali si sono distinte anche in attività agonistiche che il pensiero tradizionale associa all’universo maschile: è il caso della pakistana Kulsoom Abdullah (pesistica), della saudita Wojdan Shahrkhani (judo), dell’egiziana Hedaya Wahba (taekwondo) o dell’iraniana Sareh Javanmardi (tiro a segno). Qualche settimana fa, inoltre, la Tunisia esultava per la sua Ines Boubakri, medaglia di bronzo nella gara di fioretto femminile, ai giochi olimpici di Rio. “Questa medaglia è storica per la Tunisia. Spero possa essere un messaggio a tutte le donne, soprattutto quelle giovani, perché credano che possono avere un ruolo nella società” ha dichiarato Ines Boubakri, dedicando la sua vittoria a tutte le donne arabe.
Stesso discorso per l’Egitto che in una delle più interessanti sfide di beach volley femminile ha visto da una parte le atlete tedesche in bikini, e oltre la rete le giocatrici egiziane con braccia e gambe coperte. Una delle due, Doaa Elghobashy, ha deciso di indossare anche l’hijab. Un incontro sportivo ma anche di culture e sensibilità differenti che fa molto riflettere su quanto spesso ci si soffermi a riflettere non sull’innovatività culturale di alcune culture spesso tediate come poco emancipate, ma su ciò che non va secondo il nostro vocabolario sociologico.
Da una parte però risulterebbe incoerente ammettere che tutte le società arabe permettano la partecipazione pubblica delle donne nei giochi sportivi. In questa prospettiva, cosa sostiene l’Islam modernista riguardo il binomio donna/sport? Non esiste un’interpretazione univoca, né in questo caso né in molti altri. Per il profeta Maometto, infatti, la disparità di giudizi (ikhtilāf) era «una benedizione per la Umma – comunità – islamica». Tuttavia esistono dei comportamenti consentiti e altri sconsigliati, e lo sport rientra nel primo caso a condizione di sostenere un comportamento religioso. Vi sono però anche dei comportamenti legati allo sport e malvisti da gran parte della comunità islamica, come il mostrare il corpo in maniera eccessiva, l’essere fotografate o riprese in televisione, il gareggiare in presenza di soli uomini e il tifo scalmanato, vera e propria “malattia occidentale” che secondo i più integralisti andrebbe evitata. Chi sono questi integralisti? Coloro che adottano una propria interpretazione della fede senza i dovuti accorgimenti razionali, ma anche chi fa della propria morale di massa un obbligo a rispettare i propri principi morali. Il problema non è il velo o una tuta che copre il corpo, piuttosto il modo attraverso il quale interpretiamo questi strumenti come proibizionistici e non come forme di rispetto della propria persona, prima della propria culturalità.
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