Rapimenti, contrabbando e bracconaggio

I canali economici del terrorismo in Africa Sub-sahariana sono principalmente due: da un lato ci sono le attività criminali sul territorio, dall’altro il supporto tramite donazioni e contributi all’interno tra i network terroristici.

Beniamino Franceschini

Foto Beniamino Franceschini 3Con oltre 15.000 vittime causate dal 2009, Boko Haram è l’organizzazione terroristica più sanguinaria al mondo. In Nigeria, e nei Paesi limitrofi, i miliziani guidati da Abubakar Shekau hanno colpito con metodi diversi, dall’attacco suicida all’assalto campale con mezzi blindati, ma sempre con una strategia univoca: ottenere il maggior numero di morti possibile. Se, da un lato, al-Shabaab è divisa al proprio interno tra le frange nazionalistiche e quelle che propendono per la dimensione transnazionale, dall’altro, Boko Haram ha scelto come obiettivo la violenza fine a se stessa, l’affermazione del caos derivante dall’abbattimento delle Istituzioni statali e necessario per la transizione definitiva verso un idealizzato dominio musulmano. È evidente che una tale armata, composta forse da 7-10.000 uomini (più altrettanti ausiliari), sia piuttosto onerosa da mantenere. Eppure, così come non ci sono certezze sull’organizzazi one interna di Boko Haram, allo stesso modo non è semplice comprendere quali siano davvero i sistemi e i flussi di finanziamento che sostengono Shekau, mentre maggiori informazioni ci sono riguardo ad al-Shabaab e al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI).Contrabbando_carbone_Shabaab-01

Per cominciare, bisogna distinguere fra due canali economici: le direttrici interne, come contrabbando, rapimenti, bracconaggio, rapine… e le direttrici esterne, come rimesse dall’estero, donazioni, contributi da altri soggetti jihadisti. Proprio riguardo al giro di denaro tra i network terroristici, sono provate le transazioni tra al-Qaida e Boko Haram. Il gruppo nigeriano è stato fondato nel 2002 da Mohammed Yusuf come movimento del fondamentalismo islamico, ma non da subito violento (nonostante alcuni progetti d’insorgenza fossero già previsti), in accordo con figure locali che necessitavano di un sostegno di matrice religiosa contro lo Stato centrale. All’epoca, per Osama bin Laden l’Africa non rivestiva un ruolo strategico basilare – come, invece, accadrà con il successore Ayman al-Zawahiri – ma, durante la sua permanenza in Sudan, ebbe modo di entrare in contatto con esponenti salafiti nigeriani, ai quali, nel 2002, inviò un contributo di 3 milioni di dollari, in parte finiti a Yusuf. I principali contatti tra al-Qaida e Boko Haram avvenivano però tramite AQMI, con sostegno economico e fornitura di armi, addestramento e infrastrutture. Non è chiaro, invece, come si stia concretando oggi l’alleanza di Shekau con l’ISIS, proclamata nel 2015. Fino al 2012, inoltre, Boko Haram ha cooperato anche con al-Shabaab, che ha ospitato nei propri campi molti Nigeriani, probabilmente istruendoli nella preparazione di attacchi suicidi.

Gli anni tra il 2007 e il 2012 furono, infatti, il momento di massima espansione del gruppo somalo, che giunse a controllare le regioni meridionali del Paese: il porto di Chisimaio rappresentava un business di primo livello, gestito direttamente da al-Shabaab persino con accordi internazionali per l’import-export. In questo senso, emerge come al-Shabaab avesse (e abbia tuttora) una classe di white collars, amministratori che pianificano le attività economiche del gruppo anche all’estero. Ad esempio, è notizia del febbraio scorso che un alto dirigente di un compagnia di money transfer più volte accusata di complicità con al-Shabaab sia stato arrestato in Kenya con l’accusa di reclutamento a fini terroristici. Oppure, ancora, esistono legami tra il gruppo somalo e alcune compagnie di telecomunicazioni saudite, che trasmettono messaggi a sostegno di al-Shabaab e girano ai miliziani gli introiti da sovrapprezzi e clausole vessatorie. Un’altra fonte per al-Shabaab, sebbene in progressiva riduzione, è il contrabbando dello zucchero verso il Kenya, ritenuto particolarmente pericoloso in quanto condotto tra la popolazione e quindi capace di generare ricavi in valuta locale da spendere immediatamente, magari per il reclutamento nei campi profughi.

Una nota a parte merita il bracconaggio, che ad al-Shabaab frutta tra i 200.000 e i 600.000 dollari al mese. Alla fine dello scorso aprile, il Kenya ha bruciato 105 tonnellate di avorio, avvertendo il mondo della necessità di intensificare la lotta contro il fenomeno, un’emergenza che offende la natura e priva le comunità locali di una fonte ricchezza. Secondo la David Sheldrick Wildlife Trust, un elefante vivo può significare 23.000 dollari all’anno in turismo e ricerca. Altri 100 milioni di dollari all’anno potrebbero essere derivati, in passato, dalla vendita del carbone, prodotto deforestando vaste aree.

Non ci sono, invece, prove certe che Boko Haram compia direttamente attività di bracconaggio, ma è noto che ne ottenga una parte del profitto tramite i gruppi che agiscono nell’Africa centro-occidentale. Attorno ai jihadisti nigeriani, infatti, ruota una galassia posta a cavallo tra il banditismo e l’islamismo combattente che si dedica a varie attività criminali, dal rapimento al traffico di armi. Il bilancio di Boko Haram conta molto sui sequestri a fini di riscatto (nel 2013, per una famiglia francese furono pagati 3 milioni di dollari) e per alimentare un vero mercato degli schiavi, anche sessuali, come potrebbe essere accaduto ad alcune delle 276 ragazze rapite a Chibok nel 2014. Gli uomini di Shekau, inoltre, ricorrono a rapine (6 milioni di dollari all’anno) e a furti d’armi a discapito dell’esercito.

Schema hawalaNel business dei rapimenti, i campioni sono comunque i soggetti saheliani, in primis AQMI: già nel 2003 il gruppo aveva individuato nei riscatti un metodo strategico di finanziamento che oggi vale oltre 10 milioni di dollari. Spesso, però, non è AQMI ad occuparsi dei sequestri, ma criminali locali che talvolta procedono ad una sorta di subappalto dell’operazione o alla compravendita di ostaggi.

Contestualmente, l’Africa nord-occidentale è anche una delle maggiori rotte per il contrabbando di droga, sigarette e migranti. Mokhtar Belmokhtar, leader di al-Mourabitoun e già esponente di AQMI, era noto con il soprannome di Mr. Marlboro per il suo ruolo nel traffico di tabacco, un commercio storico che nella regione genera più di un miliardo di dollari. Da qualche anno si è cominciato ad investire persino nel business della droga, usando le rotte che attraversano il Mali – scosso nel 2012 dall’insorgenza di Tuareg e Islamisti – per trasportare cocaina verso l’Europa: la merce viaggia dal Sud America alle coste atlantiche dell’Africa (Guinea Bissau in primis) e quindi arriva nel Vecchio continente, per un ricavo, nei momenti migliori, di 800 milioni di dollari. Il tutto senza dimenticare le partecipazioni nella compravendita di armi – la caduta di Gheddafi e l’apertura degli arsenali libici hanno letteralmente inondato la regione – mentre il traffico di migranti, nella sola Africa occidentale, supera i 300 milioni di dollari.

Altre risorse arrivano con il finanziamento dall’esterno – le rimesse degli emigranti – e dalle donazioni di privati e di alcune organizzazioni di beneficenza islamiche (le cosiddette Islamic charities). Queste offrono attività di welfare, ma, al contempo, sostengono il terrorismo (come la saudita al-Haramain Foundation, colpita dalle sanzioni ONU per il link con al-Qaida).

Riprendendo l’esempio di al-Shabaab, i Somali all’estero inviano a casa tra i 500 milioni di dollari ed 1 miliardo all’anno, per lo più da Paesi scandinavi, Regno Unito e Stati Uniti. Un’ampia parte arriva legalmente alle famiglie, ma è inevitabile che una quota finisca (direttamente o indirettamente) almeno a gruppi di predicazione islamica estremistica. La questione si complica se consideriamo che la grande oscillazione nelle stime sulle rimesse deriva dall’impossibilità di comprendere quanti soldi circolino davvero tra Paesi d’origine e d’emigrazione a causa dell’uso di pratiche tradizionali quali l’hawala, un sistema informale islamico di money transfer basato su intermediari e crediti d’onore, senza circolazione fisica di denaro e, quindi, con movimenti non tracciabili. Ciò chiarisce perché sia illegale in molti Stati.Vittime terrorismo

Fondamentali al mantenimento del jihadismo sono i contributi di ricchi finanziatori: non è un mistero, per esempio, né che Riyadh sostenga la diffusione del wahabismo nel mondo, né che in Nigeria ci siano importanti connivenze tra le alte sfere e Boko Haram. In Arabia Saudita e in Qatar sono stati organizzati eventi pubblici per il terrorismo in Africa e, addirittura, esistono veri promotori dell’Islam combattente che illustrano le attività dei miliziani proponendo cifre standard per le donazioni, come i 2.500 dollari necessari ad addestrare le reclute in alcune regioni. Un esempio: all’indomani dell’attacco di al-Shabaab all’Università di Garissa del 2015 (147 morti), le Autorità di Nairobi arrestarono un religioso accusato di usare la propria moschea per la raccolta di fondi, già raggiunto, nel 2011, dalle sanzioni di Washington insieme ad un cittadino statunitense di origine somala definito un «financial manager». Anche in questa circostanza, soprattutto in passato, le formazioni del Corno d’Africa sono state capaci di costruire reti molto pervasive, attraverso i Somali della diaspora, con società ed imprese in Europa, Canada e USA formalmente legali.

Non è semplice ricostruire le esatte cifre di questi movimenti privati, ma, secondo l’intelligence americana, il solo flusso fuoriuscito dai Paesi della Penisola araba potrebbe essere conteggiato in centinaia di milioni di dollari, in parte diretto verso l’Africa sub-sahariana. Ecco perché ad emergere è, in primo luogo, l’importanza strategica di tagliare le vie di approvvigionamento finanziario dei jihadisti. La maggiore e principale vittoria contro il terrorismo sarà sempre sul piano culturale e ideologico, ossia l’estirpazione dell’idea che la violenza organizzata ed indiscriminata rappresenti un mezzo lecito di perseguimento degli obiettivi. Occorre, certo, una reazione sul campo, che prevenga ed interrompa le attività dei jihadisti, ma un’altra priorità è bloccarne il finanziamento, il che richiede un lavoro d’indagine esteso per la ricostruzione di flussi e movimenti spesso non tracciabili. Il terrorismo si combatte anche sul fronte finanziario, in una lotta non così palese come quella militare, ma che, forse ancor più di questa, mostra quanto siano diffuse e profonde le radici del jihadismo: gli attentati sono il momento conclusivo di un fenomeno che comincia con un’oculata programmazione economica e con la costruzione di una rete di sicurezza finanziaria.


Beniamino Franceschini, Analista senior – Il Caffè Geopolitico

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