l’Irragionevole durata dei processi: quali diritti per chi ha subito un danno per un processo durato troppo tempo?

La c.d. Legge Pinto

La Legge Pinto (L. 89/2001), c.d. dal nome del parlamentare che l’ha promossa, e consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo. Essa nasce per dare una concreta attuazione al principio contenuto nell’art. 6 della Convezione Europea sui diritti dell’uomo sulla ragionevole durata dei processi, nel presupposto che il processo deve avere durata “ragionevole”, perchè possa meritarsi l’appellativo di “giusto”.

Le modifiche più recenti

Recentemente, prima con il Decreto Legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in Legge n. 134/2012, e poi con la l. 208 del 2015 sono state cambiate le regole e le procedure previste dalla Legge Pinto per ottenere l’equa riparazione da essa prevista.

Sono state riviste le modalità di ricorso rendendole più snelle:

  • la domanda è modellata sulla forma del ricorso per decreto ingiuntivo
  • su di essa decide con decreto, inaudita altera parte ciò senza obbligo di sentire il controinteressato, un giudice monocratico di Corte d’Appello

La riforma del 2012 introduce, inoltre, dei parametri fissi:

  1. per la determinazione del risarcimento
  2. sui tempi di durata ragionevole del giudizio.

Per i risarcimenti veniva stabilito che per per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, il giudice dovesse liquidare una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa.

Per i tempi valgono i seguenti parametri:

  • tre anni per il primo grado di giudizio
  • due anni per il secondo grado
  • un anno per il grado di legittimità (quello in Cassazione).

Altri termini valgono per i procedimenti di esecuzione forzata, che si considerano di durata ragionevole se contenuti nel termine di tre anni, e per le procedure concorsuali (i fallimenti), che si considerano di durata ragionevole se contenute nel termine di sei anni.

Il termine ragionevole si ritiene in ogni caso rispettato se il giudizio definitivo e irrevocabile giunge nel termine massimo di sei anni.

I termini per proporre la domanda non molto stretti: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio.

Le modifiche normative apportate, però, hanno dilatato di molto la discrezionalità decisoria del giudice rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno.

Il giudice infatti, nell’accertare la violazione valuta:

  • la complessità del caso;
  • l’oggetto del procedimento;
  • il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Inoltre vi sono dei casi in cui non è possibile chiedere alcun indennizzo, come quello in cui sia stati condannati per lite temeraria, o quando la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa o il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; per i giudizi penali non è possibile richiedere l’equo indennizzo nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione dovuta alla condotta dilatoria della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli.

La Legge di stabilità n. 208 del 28.12.2015 ha introdotto ulteriori modifiche, ispirate alla finalità di “razionalizzare i costi conseguenti alla violazione del termine di ragionevole durata dei processi”, di fatto comprimendo ulteriormente il diritto all’equo indennizzo per irragionevole durata del processo.

Per il processo civile è rimedio preventivo la proposizione del giudizio con rito sommario o la richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario. Il rimedio è concepibile solo nel primo grado di giudizio, dove ancora può discutersi dell’applicazione del rito sommario o ordinario.

La norma, così congegnata, potrà indurre i difensori, per evitare responsabilità professionali, a richiedere il rito sommario anche in casi in cui esso non garantisca adeguatamente i diritti dell’assistito, inoltre nel processo penale il sollecito scritto al giudice potrebbe diventare un boomerang, il che pone delicate questioni di regolarità costituzionale circa il rispetto del diritto di difesa stabilito proprio dall’art. 24 Cost..

Infine, è stato ridotto il range dell’indennizzo da 400,00 a 800,00 euro per anno o frazione di anno.

E’ vero che lsono previsti anche dei correttivi in aumento quando il ritardo si prolunghi oltremodo, ma è comunque netta l’impressione di una “razionalizzazione” tagliata con l’accetta.

L’intervento della Cassazione Civile con la sentenza 03/09/2015 n° 18839

Abbiamo visto come a seguito della riforma del 2012 è stato previsto che “si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni”.

Quest’ultima disposizione ha dato luogo a due divergenti interpretazioni:

  • quelli che ritenevano che la norma fosse applicabile soltanto nelle ipotesi in cui il giudizio si fosse svolto in tutti e 3 i gradi possibili (primo e secondo grado di merito e cassazione);
  • quelli che ne sostenevano l’applicabilità a qualsiasi procedimento, anche se si fosse svolto in primo ed unico grado; con l’ovvia conseguenza, in tale ultima ipotesi, che il giudizio di primo grado, in assenza di impugnazioni, sarebbe potuto benissimo durare fino a 6 anni senza poter ritenere irragionevole la sua durata.

La vicenda che ha dato luogo alla pronuncia della Suprema Corte riguarda proprio un’ipotesi in cui la Corte d’Appello di Genova, chiamata a liquidare l’indennizzo per l’irragionevole durata di un processo svoltosi dinanzi al T.A.R. della Toscana e durato 5 anni e 6 mesi, aveva respinto la richiesta, ritenendo ragionevole tale durata, e richiamando appunto la seconda delle due interpretazioni sul termine di 6 anni.

La Corte di Cassazione, – chiamata a pronunciarsi sull’esatta interpretazione di queste norme – con la sentenza n. 18839/2015 ha pienamente sconfessato le tesi propugnate dalla Corte di Genova, ritenendo che il termine di 6 anni si applica solo quando si sono svolti tutti e 3 i gradi di giudizio, mentre per ogni singolo grado valgono i termini indicati dalla stessa legge, pertanto il primo grado, quando sia stato anche l’unico, non può superare i 3 anni di durata.

In sostanza, la Corte di Cassazione ha correttamente ritenuto che la disposizione sulla durata complessiva di 6 anni detti una norma di chiusura, introducendo una valutazione sintetica e complessiva del processo che si sia articolato in tre gradi di giudizio, consentendo così di escludere il superamento del termine di durata ragionevole tutte le volte in cui la durata dell’intero giudizio, nei suoi tre gradi, sia contenuta nel parametro complessivo di sei anni, e di trascurare, al contempo, il superamento registrato in un grado, quando questo sia stato compensato da un iter più veloce nel grado precedente o successivo.

La pronuncia della Cassazione è molto importante poiché la tesi contraria, propugnata dalla Corte di appello di Genova, avrebbe comportato in moltissimi casi l’esclusione dell’indennizzo per l’irragionevole durata dei processi.

Quale giustizia ed in quali tempi

La realizzazione della ragionevole durata dei processi, secondo le concordi previsioni dell’art. 6 della CEDU, dell’art. 111 della Costituzione italiana e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, è assolutamente prioritaria e centrale in tema di giustizia.

Il rapporto tra giustizia e tempo evidenzia d’altronde un delicato, potenziale conflitto di valori che trova composizione solo nel contemperamento tra opposte e irrinunciabili esigenze: il massimo della conoscenza, nel più breve tempo possibile.

L’obiettivo deve essere non quello di una giustizia sommaria, ma più semplicemente tempestiva ed il mero rimedio economico spesso non risolve un problema di fondo che è quello di snellire le procedure di fatto prevedendone una nuova per supplire ai difetti di quelle precedenti.

Gea Arcella

Nata a Pompei, dopo gli studi classici svolti a Torre Annunziata, si è laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Trieste nel 1987. Nel 2007 ha conseguito con lode un master di II livello presso l'Università “Tor Vergata” di Roma in Comunicazione Istituzionale con supporto digitale. E' notaio in provincia di Udine e prima della nomina a notaio ha svolto per alcuni anni la professione di avvocato. Per curiosità intellettuale si è avvicinata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie e dal 2001 collabora con il Consiglio Nazionale del Notariato quale componente della Commissione Informatica . Già professore a contratto presso l'Università Carlo Bò di Urbino di Informatica giuridica e cultore della materia presso la cattedra di diritto Civile della medesima Università, attualmente è docente presso la Scuola di Notariato Triveneto e Presso la Scuola delle Professioni legali di Padova di Informatica giuridica e svolge attività formative sia interne che esterne al Notariato. E' socia di diverse associazioni sia culturali che orientate al sociale, crede che compito di chi ha ricevuto è restituire, a partire dalla propria comunità. 

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