Futuro prossimo del Medio Oriente?

La progressiva scomparsa di Siria ed Iraq dalla carta geografica, ed il conseguente sgretolamento del sistema coloniale nato con l’accordo Sykes-Picot nel maggio del 1916, stanno ponendo seri dubbi su quali entità geopolitiche emergeranno dalle macerie

Mattia Temporin

In Siria, il conflitto che oppone l’autoritario Bashar Al-Assad ad un numero considerevole ed eterogeneo di formazioni ribelli ha, de facto, posto fine alla presenza di un Governo centrale, consegnando il potere politico e militare nelle mani di diversi gruppi armati che amministrano il territorio in base ai diversi credo religiosi o ideologici. Si può parlare di default dello Stato centrale anche per l’Iraq: nonostante gli sforzi delle truppe regolari di Baghdad e della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, il Paese ha perso una buona fetta del suo territorio, caduta in mano al “Califfato islamico” del leader dell’IS, Abu Bakr Al-Baghdadi. Il collasso dell’autorità statale e il processo di “libanizzazione” dei due Paesi, associati all’avanzata dei fondamentalisti islamici, con la conseguente perdita di senso di qualsiasi linea di confine, hanno fatto sì che altre questioni di carattere identitario e nazionale tornassero alla ribalta tra l’opinione pubblica internazionale. Tra queste, quella più rilevante, per il suo peso nelle strategie politico-militari e nella storia in generale, è quella dei Curdi. Il Kurdistan, la Nazione senza Stato divisa tra Iraq, Siria, Turchia ed Iran, rappresenta un tema che nasce da lontano, nell’immediato primo dopoguerra, e ha trovato risposte politiche repressive da parte dei vari Governi, i quali hanno tentato in tutti di modi annichilire e stroncare il sentimento identitario curdo e l’aspirazione di questo popolo a vedersi riconoscere un proprio Stato indipendente. Una Nazione e un popolo divisi anche nello scacchiere internazionale: da una parte, Stati Uniti, Iran ed Israele hanno sempre supportato la resistenza curda contro i regimi autoritari di Hafez Al-Assad e Saddam Hussein, mentre hanno sempre bollato come “organizzazione terrorista” il più celebre movimento indipendentista della zona, il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), impegnato per decenni in una guerriglia contro l’esercito e il Governo della Turchia, ferrea alleata del blocco occidentale e membro della NATO. Con lo sgretolamento del sistema statale post ottomano, i Curdi hanno iniziato una personale opera di state building, soprattutto in Iraq. Nel 2003, con l’invasione americana del Paese e la caduta di Saddam Hussein, nel nord si è assistito al primo tentativo di creare un’entità autonoma curda, riconosciuta dalla comunità internazionale, che permettesse ai Curdi iracheni di vivere in libertà, dopo le dure repressioni patite sotto il regime baath. In questi mesi, i combattenti curdi, i “Peshmerga”, si sono impegnati in una dura battaglia per proteggere la regione e la sua capitale, Erbil, dalla terrificante avanzata dell’IS, supportati anche dai raid aerei statunitensi e dal sostegno, in termini di denaro e armamenti, garantito da alcuni Paesi europei, come l’Italia.
In Siria, con le proteste divampate nel 2011 contro l’autoritarismo di Damasco, e con l’inizio della guerra civile, i guerriglieri curdi hanno lottato strenuamente sia contro le truppe lealiste, sia contro le formazioni ribelli connotate da un marcato fanatismo islamico, come il fronte Al-Nusra, una cellula alqaidista attiva nell’area, oppure come quello che era il padre dell’IS, lo “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”. Le vicende della regione hanno visto i riflettori della comunità internazionale puntati sulla cittadina di Kobane, sita in Siria e distante meno di un chilometro dal confine turco. Questa è stata posta ripetutamente sotto attacco da parte dei miliziani del Califfato ed è stata teatro di una resistenza eroica, quanto disperata, da parte dei combattenti curdi, in inferiorità in fatto di uomini e mezzi a disposizione. Ciò che più ha scandalizzato e provocato una dura reazione da parte delle grandi potenze è stata la totale passività del grande vicino turco di fronte al massacro di Kobane. Gli Stati Uniti in primis pensavano che un conflitto alle porte di Ankara inducesse il Presidente Erdogan ad intervenire, con un intervento militare diretto contro lo Stato Islamico o, e questa rappresentava l’ipotesi più realistica, concedendo il libero attraversamento del confine ai Peshmerga iracheni per andare a sostenere i compagni in armi a Kobane. Il mondo ha assistito all’iniziale presa di posizione turca, la quale considerava (e forse considera ancora adesso) gli estremisti islamici e i guerriglieri del Kurdistan come lo stesso nemico. Nonostante i colloqui di pace, ormai interrotti, con il leader del PKK, Abdullah Ocalan, Erdogan non intende assolutamente permettere che la resistenza di Kobane dia nuova linfa alla resistenza curda in Anatolia e riaccenda una nuova sollevazione armata contro lo Stato. Dopo giorni di indignazione e proteste, anche in seguito alla pressione determinante degli Stati Uniti, i militari turchi hanno ricevuto l’ordine di lasciare transitare i Curdi dell’Iraq diretti alla città siriana. I militanti dell’IS continuano ad assediare la città e ad essere in superiorità, ma, almeno, gli effettivi tra i resistenti sono aumentati. Nonostante la difesa dell’integrità territoriale dell’Iraq, la Turchia ha dovuto prendere atto che la realtà di una zona curda autonoma nell’ex dominio di Saddam è in pieno processo di sviluppo, e risulta essenziale nella difesa del Medio Oriente contro il fanatismo islamico del Califfo Al- Baghdadi. Nonostante Erdogan continui a condannare l’invio di armi ai Curdi come profondamente sbagliato, perché secondo lui foraggerebbe organizzazioni terroristiche, la difesa ad ogni costo di Kobane e del confine con la Siria appare indispensabile anche per proteggere la stessa Turchia dalle orde del Califfato. Nel caos mediorientale, e nella disgregazione di numerose entità statali, la possibilità di assistere allo sviluppo di uno Stato-Nazione nel Kurdistan non appare più fantascientifica. Le grandi potenze, inoltre, soprattutto Stati Uniti ed Israele, non guarderebbero con disprezzo alla creazione di un’entità statale curda, considerando la sua classe dirigente come moderata ed un efficace baluardo contro la jihad internazionale. La battaglia contro lo Stato Islamico sarà lunga ed incerta fino alla fine, ma il Kurdistan potrebbe rappresentare la prima novità di un Medio Oriente che, ormai, si sta lasciando alle spalle tutte le divisioni imposte dai vecchi padroni coloniali.

di Mattia Temporin,

giornalista freelance,

scrive per East Journal e The Bottom Up. Vive e lavora in Estonia

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