1998: Abdullah Ocalan in Italia

Alcune persone cominciarono a stazionare nella piazza antistante il Celio, al cui interno il leader era ricoverato. Poi decine, infine, con un passaparola tambureggiante, centinaia. Strette di mano, abbracci, sorrisi. La speranza era lì, a pochi passi da loro

Tullio Ciancarella

ImmagineDei Curdi non sappiamo nulla. Abbiamo appreso della loro esistenza negli anni ’80, quando alcuni loro villaggi abbarbicati sulle montagne dell’Iraq settentrionale furono oggetto di attacchi col gas da parte della Guardia Repubblicana.
Troppo gravi questi episodi perché la notizia non trapelasse. Tuttavia, nessuno mosse un dito. All’epoca, Saddam Hussein rappresentava il nostro paladino in Medio Oriente, impegnato com’era nell’assurda e sanguinosa guerra contro l’Iran khomeinista (chi ha la memoria corta non ricorda che, in questo conflitto, i morti raggiunsero la cifra spaventosa di un milione).
Per noi era quindi politicamente accettabile che il nostro favorito usasse il pugno di ferro per stroncare quattro terroristi che gli si opponevano. Poi venne la Prima Guerra del Golfo. Ci insegnarono che i Curdi erano buoni perché nostri alleati contro uno spietato dittatore, poi c’erano i Sunniti, cattivi perché nostri nemici, ma non così cattivi come gli Sciiti filoiraniani stanziati al centro e al Sud del Paese.
Il 12 novembre 1998, il leader del PKK, Abdullah Ocalan, giunse in Italia accompagnato dal Deputato di Rifondazione Comunista Ramon Mantovani.
Di nuovo, la notizia non interessò nessuno. Qualcuno si prese la briga di interrogarsi: “Ocalan… chi era costui?”. Altri, più prosaicamente, proruppero in un italianissimo “E chi se ne frega”.
Dopotutto, la sua presenza non ostacolava il regolare svolgimento del campionato di calcio. Ad interessarsi a lui furono, però, i Curdi presenti in Italia. A poco a poco, alcune persone cominciarono a stazionare nella piazza antistante il Celio, al cui interno il leader era ricoverato. Poi decine, infine, con un passaparola tambureggiante, centinaia. Strette di mano, abbracci, sorrisi. La speranza era lì, a pochi passi da loro.
La presenza di Ocalan era, però, molto ingombrante. La Turchia richiese immediatamente la sua estradizione. Non vedeva l’ora di acciuffare il suo acerrimo nemico. La vicenda divenne particolarmente spinosa per l’Esecutivo guidato da Massimo D’Alema. Cerchiamo di capirne i motivi. Ocalan si consegnò spontaneamente alla polizia chiedendo asilo politico. Turchia e Stati Uniti esercitarono delle forti pressioni affinché gli venisse negato. La Turchia godeva di un’importanza strategica fondamentale: candidata ad entrare in Europa, rappresentava anche una testa di ponte militare proiettata verso l’area calda del Medio Oriente e verso i territori dell’ex Unione Sovietica. Dalla base turca di Incirlik erano decollate numerose missioni alleate durante la Guerra del Golfo. Inoltre, un diniego alle richieste di Ankara avrebbe compromesso le numerose commesse delle aziende italiane operanti in Turchia. D’altra parte, l’Italia non poteva concedere l’estradizione di un imputato a favore di uno Stato nel quale vigesse ancora la pena di morte. Proprio questo tema rappresentava uno degli snodi dei negoziati per l’annessione della Turchia alla Comunità Europea. Una situazione, quindi, per nulla semplice. Purtroppo, il Governo D’Alema non riuscì a gestirla al meglio. Nonostante le smentite ufficiali, fu rappresentato ad Ocalan che la sua presenza non era gradita perché stava creando notevole imbarazzo a livello diplomatico. Gli venne caldeggiato di lasciare il Paese “spontaneamente”. Dopo 65 giorni trascorsi in Italia, il 16 gennaio 1999 Abdullah Ocalan se ne andò diretto a Nairobi. Il suo “allontanamento volontario” scatenò le proteste della comunità curda in Italia, giustamente preoccupata per la sorte del suo leader. Ugualmente, il Governo turco non fece molto per celare il suo disappunto nei confronti del nostro Paese, reo di non aver concesso l’estradizione.
I maligni dissero che era difficile scontentare contemporaneamente due fazioni arroccate su posizioni diametralmente opposte. Secondo loro, il nostro premier riuscì nell’impresa.
Né furono esemplari le sue – umanamente comprensibili – stizzite repliche ai giornalisti che continuavano incessantemente ad incalzarlo sul destino di “Apo”. “Non so dove sia ora Ocalan, né mi interessa” la sua dichiarazione riportata da Flavio Haver sul Corriere della Sera del 19 gennaio 1999.
Il 15 febbraio 1999 il leader curdo fu catturato dai servizi segreti turchi mentre si dirigeva all’aeroporto di Nairobi scortato solo da alcuni agenti greci. Giunto in Turchia, fu rinchiuso nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali. Successivamente, fu condannato alla pena di morte quale responsabile degli atti di terrorismo commessi dal PKK e della morte di migliaia di persone. Tuttavia, il Presidente Ecevit non fece eseguire la condanna: troppo importanti i negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa. Inoltre, l’esecuzione avrebbe creato un mito ancora più forte dell’uomo. Più utile alla propaganda nazionalista tenere Apo a marcire in carcere. Nel 2002 la Turchia abolì la pena di morte e la condanna di Ocalan venne tramutata in ergastolo.
È probabile che il PKK avesse già maturato l’idea di rinunciare alla lotta armata considerando più redditizia la dialettica politica.
Ciò che trapelò all’estero, però, fu che il grande leader, terrorizzato dal pensiero di essere giustiziato, pur di aver salva la vita fu disposto ad umiliarsi abiurando quanto aveva sostenuto – e tutto un popolo con lui – per una vita intera.

di Tullio Ciancarella,

Responsabile editoriale di SocialNews

Rispondi