Aquila nera: fine pena mai

Nel 2001, per la prima volta, il carcere “Aquila Nera” ha aperto i cancelli, lasciando entrare il giornalista Mark Franchetti del Sunday Times.

Marco Pasquariello

Immaginate di vivere lontano dal mondo. Immaginate di vivere in mezzo ai boschi sconfinati di abeti, pini e betulle
della Siberia nordoccidentale, al centro di una foresta grande come tutta la Germania posta ai piedi degli Urali. Immaginate di vivere a otto ore di auto dalla città più vicina e a più di quaranta chilometri dal paese più vicino. Immaginate di vivere dove l’inverno dura nove mesi, con temperature sempre sotto i -45° e neve oltre i tre metri, e dove l’estate è afosa, umida e piena di zanzare. L’avete immaginato? Bene. Ora immaginate di doverci vivere per tutta la vita, senza la possibilità di vedere nessuno se non i reclusi insieme a voi e le guardie, che per voi non provano
nessuna pietà. Benvenuti nella colonia penale 56 “Aquila Nera”. Se siete qui, siete pluriomicidi con un ergastolo sulle spalle.
Nel 2001, per la prima volta, il carcere ha aperto i cancelli, lasciando entrare il giornalista Mark Franchetti, corrispondente del Sunday Times. Cercava informazioni per realizzare un documentario per la BBC. Franchetti è rimasto molto impressionato da questo carcere. Nel 2013 ci è tornato, con Nick Read e Dimitri Belyakov, per realizzare il documentario “The Condemned”.
Sono quasi trecento i detenuti che vivono in questo angolo di inferno, divisi in due categorie. La prima, composta da tutti coloro i quali si sono visti comminare l’ergastolo per delitti di sangue in virtù della riforma della giustizia di Eltsin del 1996, è la meno numerosa. Gli altri sono vivi grazie, o a causa, della stessa riforma. Erano tutti detenuti nei bracci della morte di varie carceri, in attesa dell’esecuzione. Tutti sono stati automaticamente condannati a 25 anni di detenzione e riuniti qui. Da quella riforma sono passati 19 anni, e dei condannati a vivere ne restano 170. Mentre gli ergastolani vivono in celle singole, di quattro metri quadrati, o doppie, di dodici, i 170 vivono tutti insieme in uno spazio comune ed in baracche di legno affollate, vittime di una legislazione lacunosa sul loro destino e sul loro
trattamento. Ma c’è chi sta peggio. Ai circa 260 detenuti corrispondono oltre 800 persone assassinate, vittime di risse, stupri, stragi, omicidi passionali, regolamenti di conti ed esecuzioni.
C’è chi ha ucciso sei persone a coltellate, chi ha picchiato a morte la moglie e la suocera in un raptus di gelosia, chi ha stuprato ed assassinato ragazzine. Sopra di loro, sulla sommità delle cinque recinzioni e barricate che circondano il campo, e nelle guardiole in ogni corridoio, ci sono le guardie. Nel corso degli anni hanno costruito un villaggio distante qualche centinaio di metri dall’ingresso della prigione per vivere insieme alle loro famiglie. Ma, data l’impossibilità di fuggire, per le temperature proibitive e la taiga estesa per decine e decine di chilometri, la
sorveglianza rischia di diventare vulnerabile. Anche la pena per queste anime perdute potrebbe incrinare la sicurezza del carcere. A questo pensa Subkhan Dadashiov, direttore del carcere. Per sua stessa ammissione, non ha mai provato compassione per nessun criminale. Nella casetta di legno che si è costruito ha cresciuto, insieme alla moglie, tre figlie. È direttore del carcere dal 1986. È qui da più di chiunque altro, carcerati compresi.
Un sistema di tubature collega il carcere ad un lago sito nelle vicinanze per il rifornimento d’acqua, mentre l’energia nelle celle e nei recinti elettrificati è garantita da una serie di generatori. Il sistema fognario non c’è. Gli ergastolani devono svuotare il loro secchio nell’ora d’aria giornaliera in un fosso su cui si affacciano tutti i cortili. Lo stesso avviene per i palazzoni dei pre-1996 e anche per le case delle guardie.
Nei lunghi e freddi corridoi di Aquila Nera c’è rassegnazione. Alcuni si sono pentiti, altri no. Altri, ancora, sono consapevoli di ciò che sono e dell’impossibilità di cambiare. Nelle celle tutti sanno che non usciranno mai. Pochi percepiscono un’idea di tempo che vada al di là dell’oggi. L’unica attività svolta è quella di camminare avanti e indietro nella cella, data la regola di non potersi sedere e distendere durante il giorno. La camminata è intervallata solamente dai pasti e dal sonno. Camminare, mangiare, dormire. Camminare, mangiare, dormire. Giorno dopo giorno. Per tutta la vita. L’unico svago concesso, oltre all’ora
d’aria, sono le visite. Gli occupanti delle celle hanno diritto a due visite all’anno da quattro ore ciascuna attraverso un vetro antiproiettile spesso e sporco. Nessun contatto fisico. Pochissimi ricevono visite, data la distanza proibitiva del carcere da ogni insediamento abitato. Nelle tre settimane in cui la troupe ha girato, si è verificato solo per due detenuti: Maxim ha visto la madre per la prima volta in cinque anni; sarà anche l’ultima, perché lei, in lacrime, gli ha confessato di non potersi più permettere il viaggio di oltre 8.000 chilometri che l’ha condotta lì. Maxim sa perché è lì, ed è consapevole che, se venisse rimesso in libertà, sarebbe un pericolo. Prova a consolare la madre. Maxim ha ucciso sei persone a mani nude e a coltellate. Tra di esse vi erano una donna e un bambino di dieci anni. Qualche anno fa, per protesta, si è cucito la bocca e si è tagliato le vene. Non sa da quanto tempo è dentro, non avverte più il passare dei giorni, dei mesi, degli anni.
Gli altri, i sopravvissuti, hanno il permesso di scrivere e ricevere lettere e sono concesse loro visite coniugali. Uno di loro, Andrei, condannato a morte negli anni ’90 per aver stuprato e ucciso una bambina, è stato contattato da una vittima di stupro che cercava di indagare nella mente di uno stupratore assassino. I due si sono sposati in cella ad Aquila Nera. Hanno due figli che non hanno ancora visto il padre. La loro vita procede tranquilla, in una sorta di limbo semilibero in cui possono condurre una vita normale all’interno di cinque recinti elettrificati e con guardie armate che li osservano. Lavorano, pregano, mangiano e dormono insieme, in una sorta di gulag del XXI secolo, gerarchicamente divisi secondo un antichissimo codice d’onore russo. Chi ha commesso crimini su donne o bambini o chi è dichiaratamente omosessuale vive in disparte, mangia con le proprie posate e nei propri piatti e compie solamente i lavori più umili. Non c’è violenza fisica o coercizione: è così per una
legge non scritta, ma riconosciuta e rispettata da tutti.
Tra sei anni, le anime dei casermoni di legno usciranno. Nessuno se ne preoccupa, per non doversi porre domande a cui non può o non vuole rispondere. Nemmeno i carcerati, che si trovano a dover reinventare una vita a cui sono stati condannati quasi trent’anni fa.

di Marco Pasquariello

giornalista pubblicista, collabora con Messaggero Veneto, UdineToday, il Friuli e The Bottom Up

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