Big Eyes, il ritorno più sincero di Tim Burton

di Valentina Tonutti

I have a problem when people say something’s real or not real, or normal or abnormal. The meaning of those words for me is very personal and subjective. I’ve always been confused and never had a clearcut understanding of the meaning of those kinds of words.” – Tim Burton

 

Come per l’ultimo film di Woody Allen, anche per quanto riguarda l’ultima pellicola di Tim Burton non sono entrata in sala con grandi aspettative. Gli ultimi film di entrambi i registi non mi sono piaciuti e alcuni mi sono proprio rifiutata di guardarli perché sia Allen che Burton mi sembrava non avessero più niente da dirci.
Ma se col primo (ndr. Magic in the moonlight) si poteva facilmente intuire già dal trailer che si sarebbe trattato di una perdita di tempo, con Big Eyes, l’ultima pellicola di Tim Burton, non tutte le speranze sembravano perdute, in quei tre minuti di anticipo.
Sarà la presenza di Christoph Waltz, senza il quale il film probabilmente non starebbe in piedi.
Sarà che la storia su cui si snoda la trama del film lo rende particolarmente appetibile, ma con Big Eyes Tim Burton torna finalmente a dirci qualcosa, in un modo nuovo.

Già dalle prime scene del film la domanda sorge spontanea: ma dov’è Tim Burton? dov’è la malinconia? Dov’è la prigione?
C’è tutto, in realtà, in Big Eyes, ma Tim Burton è incatenato da se stesso come se volesse trattenersi dallo sputare fuori tutto il suo tipico immaginario perché questa volta vuole raccontarci una storia vera: il segreto dietro i grandi occhi dipinti da Keane negli anni ’50 e ’60. O meglio, quelli dipinti dalla moglie Margaret Keane e che suo marito, Walter Kaene, spaccerà come suoi dopo averla sposata, derubandola di gloria, dignità e soldi.

Siamo alla fine degli anni ’50 quando i ritratti dei bambini dipinti da Margaret, caratterizzati da occhi grandi, malinconici e inquietanti iniziano a spopolare a San Francisco e Walter -la cui unica capacità è saper vendere e farsi odiare dai galleristi- non tarda a intuirlo, iniziando così a segregare la moglie nel suo studio in soffitta.
Margaret d’altra parte è una donna che ha avuto sì il coraggio di abbandonare il marito precedente in un momento in cui il divorzio non era ben visto dalla società americana, ma è anche una persona molto debole, la cui unica sua salvezza rimane rifugiarsi a fare quello che la rende felice. Dipingere. Il suo talento e la sua passione diventano così un’arma a doppio taglio: un’ancora di salvezza per il suo animo e una prigione dentro la sua stessa casa.
Margaret non riesce a starci simpatica perché non sa vendersi e non sa reclamare i suoi diritti mentre Walter, i cui tratti da viscido ciarlatano sono esagerati da un come sempre magnifico Waltz,  fiuta immediatamente il loro valore commerciale e nonostante non abbia la minima capacità artistica, spacciandosi come il vero autore dei quadri si fa amare dalla stampa e dal popolo americano.

Margaret e Walter Kaene

Margaret e Walter Kaene

In una cornice costituita da un’ottima fotografia, tra gli incantevoli e colorati vialetti della periferia americana e le vie gremite della San Francisco degli anni ’60, Lana Del Rey cantaIt’s amazing what women in love could do” con il suo solito tono melodrammatico, e la coppia Keane diventa ricchissima di soldi e bugie.

Ma è proprio qui, quando ormai il dramma è in atto, che il Tim Burton che fino ad ora sembrava essere assopito si manifesta sul serio: quando la luce proveniente dalla piccola finestrella della mansarda colpisce ed illumina Margaret mentre è intenta a dipingere i suoi quadri, tra grandi occhi e immense bugie, mentre là fuori Walter si gode il successo e la bella vita nei salotti.
Nella mansarda dove Margaret riesce a nascondendosi anche da sua figlia, non può nascondersi al suo creatore.
E Burton è lì, nella mansarda. In quel rivolo di luce che la colpisce illuminando lei, le sue tele e i colori sul pavimento. Burton c’è ed è lì vicino al suo personaggio, in quella prigione senza via di fuga che racchiude un grande dolore che riesce ad esprimersi solo attraverso l’arte.

Margaret Keane è una vera artista il cui talento viene soggiogato dalla smania di successo del marito e dal turbinio commerciale e rappresenta per questo il personaggio burtoniano incastrato nei suoi stessi sentimenti mentre il mondo là fuori sta a guardare, mentre il popolo chiede poster e cartoline da acquistare a 10$ l’uno.

Certo, a parte la grande interpretazione di Christoph Waltz che persegue un climax crescente durante l’intero film, questo non raggiunge comunque l’intensità dei capolavori di Tim Burton, ma perlomeno ci fa dimenticare Alice in wonderland  e mette un attimo in panchina Johnny Depp.

Che ci voglia far riflettere sulla vera natura dell’arte? Sulla contrapposizione del saper fare arte e saperla anche vendere? Sì.
Che ci voglia impartire la lezione morale sul credere alle proprie capacità, sull’arrendersi mai?
Forse. E se sì, non si tratta dell’obiettivo principale.

Che sia tornato, invece, a proporci  la storia del personaggio debole, dell’outsider che dentro la sua solitaria cameretta cerca di esprimersi con sincerità? sì.
Non siamo ai livelli della fiaba drammatica di Edward mani di forbici, ma Big Eyes rimane pur sempre una storia vera raccontata attraverso dei  lacrimosi, sinceri e grandi occhi che ci riportano dritti dentro l’immaginario fantasticamente reale di Tim Burton, e che per questo vale la pena di essere ascoltata.

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