Discriminazioni e comunità romanì

di Dimitris Argiropoulos

La comunità rom ha attraversato una moltitudine di fasi problematiche: dal nome al riconoscimento giuridico, alla cosiddetta “emergenza” dei campi fino alla mai risolta questione europea

1. Il nome e il riconoscimento (8 Aprile 1971). Riconoscere l’autodeterminazione del popolo rom.
La prima questione oggetto di imbarazzo e di “sorpresa” nell’affrontare temi, persone e situazioni relative ai Rom riguarda il nome. Come nominare l’altro, confinato spesso in condizioni critiche e, comunque, investito da una notevole lontananza sociale ed interpersonale?
La sigla RSC significa Rom, Sinti e Camminanti. Potrebbe essere tranquillamente scambiata con l’abbreviazione di un’assicurazione automobilistica. È stata voluta dalle istituzioni per superare il termine zingari e, in seconda battuta, evitare la parola “nomadi” rimanendo eternamente bloccati nelle logiche spregevoli di etero descrizione. I nomi utilizzati per definire e gestire i contatti con i Rom rappresentano il primo indicatore di qualità dei riconoscimenti agiti, veicolo di reciprocità e di diritto dichiarato. Nel contesto italiano, l’interloquire con i Rom non considera e, di conseguenza, evita di riconoscere e discrimina una popolazione che sa bene come
si chiama e che ha scelto i suoi nomi ufficializzandoli. L’8 aprile 1971 si è tenuto in Inghilterra il primo storico congresso mondiale rom. “…vide riuniti intellettuali e politici di origine rom in rappresentanza di vari Paesi europei. In quell’occasione si decise di adottare la bandiera rom e l’inno internazionale “Dijelem Dijelem”, oltre all’importante decisione di autoidentificarsi attraverso l’etnonimo Rom e di rifiutare ogni eteronimo negativo”. Non riferirsi a questa decisione, negando riconoscimenti e perpetuando una discriminazione relativa all’appartenenza e all’unità di un popolo, la cui ricchezza passa attraverso l’eterogeneità dei gruppi che lo compongono va considerata un’aggressione di tipo colonialista e assimilazionista dai pesanti risvolti segregazionisti, promotori di razzismo differenzialista.

2. La questione europea.
L’Unione Europea, istituzione sovranazionale costituita dopo due guerre mondiali e, soprattutto, dopo Auschwitz, simbolo di universi concentrazionari e di sterminio, diventa apertura di persone, comunità, Nazioni e culture che fanno incontrare appartenenze differenti. In questa Europa (il termine significa continente di apertura e, per di più, apertura attraverso la conoscenza) nella quale l’obiettivo è la realizzazione di transculturalità conseguenza di transnazionalità esiste, di fatto, una minoranza transnazionale e transculturale: i Rom. Minoranza costituita da un’infinità di comunità e gruppi, per un totale di circa 12 milioni di persone, presente in tutti gli Stati membri dell’Unione. Minoranza che non rivendica un territorio esclusivo (in termini nazionalisti) che convive e si amalgama con le altre culture locali senza perdere la sua unicità e distinzione. Minoranza che vede al suo interno la presenza di classi sociali e che è interessata alla mobilità sociale e allo sviluppo delle sue comunità.
Minoranza che non riceve uno statuto unico di riconoscimento europeo. La sua unica prospettiva di considerazione passa attraverso i meccanismi dei programmi di assistenza e di contrasto alla povertà. Le comunità rom (o romanì) affrontano il rischio di essere cristallizzate esclusivamente come oggetto di programmi assistenziali. I Rom non sono solo poveri e soggetti ad assistenza pubblica. Questa visione monolaterale ha generato anche nuovi termini, come “famiglie senza territorio” o “famiglie senza fissa dimora” e rappresenta una discriminazione internazionale che allontana la possibilità di un riconoscimento europeo. Si allontana anche la possibilità di rapportarsi a loro, portatori di convivenza, per imparare, sperimentare e affinare le nostre pratiche di convivenza.

3. Discriminazione nei paradigmi di approccio, conoscenza e proposta.
Rivedere le priorità nella riduzione della distanza sociale e istituzionale potrebbe essere meno complicato se si rivedessero le analisi e i paradigmi di approccio, conoscenza e comunicazione, sociale e istituzionale.
La discriminazione sotto le forme dell’impossibile, indicibile, incomunicabile, invisibile, ineducabile, impensabile, inimmaginabile, intoccabile (zingaro, in Greco, significa intoccabile), invivibile, qualificano in modo ancora peggiore l’indifferenza verso i Rom. A volte, questa è reciproca. Le forme che investono le pratiche interattive e comunicative, sociali e istituzionali, le dicotomie e i fallimenti di vicinanza e di diritti, la gratuità delle repressioni e le situazioni gravissime ci invitano a rivedere i modelli di analisi e intervento. Il binomio nomadismo – stanzialità è considerato l’unica chiave interpretativa di una realtà difficile, spesso estrema. Come tale, è altamente discriminatorio. La polarizzazione dell’analisi sull’approccio nomade devia le attenzioni e disorienta la conoscenza, nascondendo la sostanza di una contrapposizione forte. La minoranza romanì equilibra, proporziona e adegua la sua presenza nei territori europei. Una presenza di sopravvivenza e convivenza associata alla scarsa qualità dei rapporti con i non Rom. Una presenza che diviene fuga davanti alle aggressioni violente e omologanti, ma che diviene anche tregua se si cerca il rapporto e si ottengono condizioni di pace sociale.
La discriminazione investe pienamente le proposte istituzionali, contraddittorie e impostate sull’assurdo. Proposte che indirizzano individui e comunità romanì in un sistema abitativo esclusivo (segregante) e, nello stesso tempo, indirizzano le stesse persone e le stesse comunità ad usare un sistema scolastico formativo di tipo inclusivo. Una condizione violenta di lontananza sociale, i campi, creata istituzionalmente e che si cerca di “affrontare” con una proposta di “integrazione” ugualitarista, una scuola per tutti incapace, però, di trattare le differenze culturali e sociali. Si collocano i Rom nei campi nomadi e, allo stesso tempo, si chiede loro se desiderino essere intergrati o, meglio, se intendono lasciare a noi l’integrazione dei loro figli. La “proposta” diventa alibi dell’assurdo e caratterizza l’azione pubblica e gli argomenti di invivibilità e indifferenza. Diventa alibi per strutturare la fuga dagli incontri.

4. Il diritto.
La discriminazione che passa attraverso il diritto positivo nei confronti dei Rom riguarda categorie inventate, come “i nomadi”. La legislazione è regionale e non nazionale e/o sovranazionale. Si tratta di leggi inapplicabili e difficilmente utilizzabili per tutelare una presenza polimorfa, complessa e in situazione di disagio sociale. Nessun riferimento ad una cittadinanza di migrazione o allo status di profughi. Si tratta di difficoltà legate all’appartenenza culturale e destinate a diventare insormontabili.
I regolamenti amministrativi – soprattutto dei Comuni – esprimono un’impostazione rigida nel concepire e regolare i comportamenti nei campi nomadi e nei centri di prima accoglienza. Ciò ne incentiva la costante trasgressione ed un’alta conflittualità. Difficilmente potranno essere considerati per creare relazioni e dinamiche di diritto.
La legislazione che considera le differenze etniche è stata influenzata dalle logiche dell’emergenza, e lo è tuttora.
I diritti umani e di cittadinanza risultano difficilmente rivendicabili dai Rom poiché essi sono marchiati da descrizioni negative e percepiti come associali. Il riconoscimento delle differenze socio culturali avviene in senso restrittivo e unicamente con riferimento al “privilegio” di una categoria di riferimento: si è nomadi e non cittadini, profughi o immigrati anche quando si tratta di cittadini europei. Le politiche verso “i nomadi” hanno condizionato le strategie sociali di accoglienza deformandone il concetto. L’impostazione degli interventi è orientata all’assistenzialismo e alla repressione. Le politiche di emergenza e gli interventi speciali hanno condizionato anche le impostazioni e i percorsi di mobilità sociale.
I rapporti dei Rom con i non Rom e la società circostante i campi sono impostati sulla “logica del danno minore”. Si persegue la propria difesa con la chiusura e non con l’apertura nelle relazioni, mantenute esclusivamente nella forma minima dell’indispensabile utilità. L’autogoverno dei gruppi e delle famiglie allargate dei Rom non viene considerato nella ricerca di forme di rappresentanza politica nei rapporti con i non Rom. L’attuale impostazione della mediazione socio – culturale non permette la nascita di percorsi di emancipazione. Esiste una leadership intellettuale dei Rom che guida i gruppi e le comunità e che dovrebbe essere considerata e valorizzata. Il bisogno di emancipazione e di alfabetizzazione in campo politico è forte e sentito nella “Zinganità” che versa in condizioni di povertà emarginata nei campi. È forte il tentativo di spiegare all’esterno la propria condizione.

5. L’azione pubblica verso Rom e campi nomadi.
I campi nomadi rappresentano il prodotto dell’azione della pubblica amministrazione ed anche il risultato di insediamenti spontanei. Vi trovano rifugio persone, famiglie, comunità di Rom e non Rom. Vi risiedono cittadini italiani e migranti.
Vi hanno trovato asilo anche profughi non considerati nella loro condizione ed esclusi dai percorsi di accoglienza. Chiudere un campo è auspicabile anche da parte di questa gente che, con molta leggerezza, abbiamo chiamato nomadi e che, paradossalmente, lo è diventata, in quanto residente nei campi. Sono nomadi perché abitano in un campo nomadi…
La realtà dei campi è pesante, scandita dalla violenza consumata nel quotidiano e dall’enorme fatica legata alla sopravvivenza delle persone e delle famiglie. Una sopravvivenza quotidiana: garantirsi un pasto al giorno, arrivare a sera senza danno per se e per i membri della propria famiglia… Una sopravvivenza che appiattisce la persona all’istante vissuto, alla banalità di un contesto degradato, periferico, povero e privo di relazioni. Un contesto di sofferenza, descritto da molti come abitabilità diversa per culture alternative alla nostra. Beffe, trucchi e distorsioni dell’azione della pubblica amministrazione. La situazione non muta e diviene permanente, si cristallizza e non prevede progetti di uscita. Il campo nomadi è una segregazione organizzata, risultato dell’interesse e del disinteresse istituzionale. Una soluzione pubblica, appena tollerata, che annienta e violenta. La vita è confinata ai limiti della sopravvivenza.
Possiamo affermare che il campo nomadi sta ai suoi abitanti, soprattutto Rom, come il manicomio sta ai malati di mente.

6. Organizzare l’incontro.
Perché le istituzioni si contorcono in questo nodo dell’impossibile? in questa costruzione di estraneità, in questa azione pubblica che nega l’altro impedendo il pensiero e la vicinanza? Cosa genera la forza pubblica usata con convinzione da decenni negli sgomberi? Sgombero di luoghi, persone, esistenze. Sgombero dagli obblighi del pubblico, del sociale, dell’istituzionale, considerando criticità e inasprendo situazioni che, invece, hanno soluzioni. Una pratica di tipo militare a cui ricorrono istituzioni ed enti locali. Si ottiene, invece, l’effetto contrario rispetto alla retorica del “risanare i territori”. I campi nomadi proliferano investendo quartieri, paesi e territori vicini, incrementando logiche di odio, aggressività e paranoia. Lo sgombero è una pratica istituzionale ossimora, demente, permeata della follia e dell’onnipotenza di chi esercita il potere. Una pratica che degrada la democraticità dei Comuni, istituiti, invece, proprio per curare il bene comune. In questo bene comune devono essere inclusi anche i Rom. Noi desideriamo pienamente questa inclusione.
In questo drammatico scenario, qualcuno cerca di sciogliere i nodi, attivare i collegamenti, prospettare soluzioni diverse. Si tratta di spezzare le descrizioni negative, le retoriche sicuritariste, gli indotti politici impostati sul nemico destinato al sacrificio, a cui è negata la convivenza, soggetto ad educazioni imposte e svilenti della dignità umana. Non vi è considerazione delle loro peculiarità. Cittadini singoli e organizzati si pongono domande sulla prossimità delle persone dei campi e su eguaglianza e Democrazia nel quotidiano.
Persone che non considerano il possesso o meno della cittadinanza per subordinarne l’accesso ai servizi.
Queste Persone ricercano soluzioni responsabili a favore di chi vive segregato e privo di diritti.
I paradigmi internazionali ed italiani delle migliori prassi, nate e strutturate nell’assurdo dei campi e nella presunta impossibilità di considerare e gestire somiglianze e differenze tipiche dell’umano, esistono. Sono proposte comunque degne di considerazione, nate dall’effettiva volontà dell’incontro. Non si tratta di retoriche buoniste, ma di soluzioni associate all’incontro, ivi considerati lo scontro e la fatica dell’incontro fra persone diverse. Significa proporre un miglioramento delle condizioni di vita di chi ha meno possibilità non attraverso la tolleranza, ma con la negoziazione.
Sono percorsi di conoscenza e accoglienza, proposte che partono dai diritti umani e di cittadinanza, assolutamente esigibili. Proposte che istituzionalizzano la presenza del privato sociale e del volontariato spontaneo. Proposte che diventano percorsi di gemellaggio fra persone e famiglie. Proposte che diventano comunità.

Dimitris Argiropoulos
Professore a contratto presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione. Università di Bologna Alma Mater Studiorum

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