Fuori dalla storia e fuori dalla sociologia

di Giulio Soravia

Un popolo sul quale si è scritto tanto, libri, riviste, opuscoli, quaderni, eppure, sempre al limite dell’esistenza. Un popolo che non dovrebbe esistere, eppure c’è. Un popolo di uomini in viaggio, poeti, migranti. Un popolo che non ha mai sfruttato il lavoro altrui e non ha mai fatto una guerra. A volte, basta solo cambiare prospettiva per poter scoprire qualcosa di speciale

Nella storia dell’umanità, molti popoli sono scomparsi, falcidiati da epidemie, sterminati da guerre, dispersi da un vincitore che, spesso, non lasciava neppure traccia della loro esistenza. Cartagine fu rasa al suolo, gli stessi Romani abbatterono il Tempio di Gerusalemme e diedero inizio alla diaspora ebraica. Armeni e Rom subirono persecuzioni e violenze e si sparsero nel mondo. Ma proprio nel momento critico del loro esilio inizia una nuova storia che li rende immortali. Osservo le mie librerie piene di volumi di ogni genere sul mondo rom: riviste, opuscoli, quaderni, brochure, cataloghi.
Una miriade di pubblicazioni e tanti manoscritti affidatimi da amici nel corso di quasi cinquant’anni di frequenza di un popolo che non dovrebbe esistere, eppure c’è. In uno scaffale trovo una serie particolare: sono traduzioni delle scritture cristiane in uno o nell’altro dei dialetti rom e sinti. Ce n’è un paio di dozzine e non ho tutti quelli di cui conosco l’esistenza: dal Criscote e Majaró Lucas tradotto due secoli or sono da G. Borrow nel Caló spagnolo al recentissimo Nuovo Testamento in una forma di Sinto tedesco, regalatomi da un’amica e pubblicato nel 2010.
Qualcuno ha avuto in odio questo popolo, ma altri hanno mostrato interesse per la sua lingua, la storia, la cultura. Abbiamo letto la tragedia dell’olocausto narrata da Kenrick e tradotta in Romanes da Grattan Puxon per ricordare che, ad Auschwitz, si era tralasciato di menzionare le migliaia di Rom e Sinti gasati e sepolti in fosse comuni accanto ad altre vittime dell’odio. Ma non è l’odio nei confronti dell’altro che costituisce un elemento da studiare. L’odio irrazionale e violento è sempre esistito e nasce dalla paura di ciò che non si capisce.
Non c’è altro da analizzare. Ciò che conta è chiedersi perché questa gente sia ancora qui, esista, abbia una sua identità che sfida ogni definizione, parli lingue diverse, custodisca tradizioni differenti, modi di vita, di lavoro di ogni tipo, non professi una fede comune e, tuttavia, non solo esiste, ma sa di essere uno solo popolo. E questo ci conduce per mano a vederne quei lati positivi che hanno attirato tanti accostatisi a questa cultura scoprendovi ricchezze inimmaginate.
Ci sono elementi irrazionali in questa ricerca. Forse è solo “intelletto d’amore” che ha mosso certi, oppure razionale curiosità fuori dai solchi della cultura ufficiale. Si dice che il marchese Colocci detestasse frequentare gli stessi di cui scriveva lusinghiere storie. Ma questa è una vicenda limite. Dora Yates (1879-1974) per ciò che mi narrava di lei Derek Tipler, orfano ed erede di un ramo estintosi nel Galles quasi un secolo fa. Derek aveva studiato grazie a lei, alla sua indefessa costanza nel raccogliere echi di una cultura che ammirava sulle pagine di quella che era stata la sua creatura, “The Journal of the Gypsy Lore Society” a Liverpool. Con Sampson aveva raccolto le ultime voci dei Rom gallesi in un classico: The Dialect of the Gypsies of Wales (1926). Derek mi invitò a Roma dove dirigeva i programmi di Radio Vaticana per l’Africa e mi donò per anni tutto il suo sapere sul mondo zingaro. Di certo, non poco. Poi decise di tornare a girare il mondo in carovana.
Anni dopo bussò alla mia porta Erik Ljungberg, autore di un altro testo ormai fondamentale e basato sui racconti del calderaio Johann Dimitri Taikon in Svezia. Viaggiava con una piccola borsa. Rimase un paio di giorni a casa mia e ci accorgemmo di come era facile parlare quando lo stile di vita di due persone mai conosciutesi prima è identico.
Passò altro tempo e incontrai Matéo Maximoff (1917-1999): avevo letto molti suoi scritti, tra cui Les Ursitory (1946), La poupée de Mameliga (1986), Le Prix de la Liberté (1996).
Matéo era consapevole del proprio valore, ma non abbandonò mai la via che aveva scelto per rimanere fedele alle sue origini, pur integrandosi nella società egemone.
Conobbi, poi, Rasim Sejdić e il suo dolore, cui dava via libera nelle poesie. Diventammo amici: un’amicizia troppo breve, stroncata da un male incurabile. Aveva cercato la sua strada, aveva vissuto a Sarajevo e in Germania (non gli era piaciuto di dover lavorare solo per guadagnarsi da vivere, senza che il lavoro riempisse la sua anima). Era un uomo buono e sincero.
Una gaǧi, un Rom, ancora un gaǧo e poi ancora un Rom.
Questo il senso di una vicenda in cui le diversità si fondono in una cultura del rispetto reciproco e dell’interesse ad arricchirsi dei valori trasmessi dall’uno o dall’altro. Valori assoluti esistono e sono quelli di un’umanità che non accetta etichette e stereotipi, non basa la propria identità su un look costruitosi addosso, ma sul considerarsi cittadino di un pianeta nel quale ciò che conta non è essere Cristiani o Musulmani, parlare Russo o Inglese, avere la pelle bianca o nera, ma essere umani, manuš, homines, Menschen.
Ne ho conosciuti di questi uomini e donne che hanno fatto tesoro della lezione appresa nel confronto, nel rispetto reciproco. Basta sfogliare i 35 anni della rivista “Lacio Drom”, le pagine di “Etudes Tsiganes”, di “The Journal of the Gypsy Lore Society” per ritrovarli tutti lì. Troppi per riportarne i nomi, testimoni di una rivoluzione che non ha beneficiato della vittoria completa.
E ultimo di questa lista, di cui fanno parte solo pochi sopravvissuti, ci sono anch’io: la rivista “Lacio Drom” iniziò le sue pubblicazioni timidamente nel 1965 e il mio primo contributo fu nel 1969. Da allora ho continuato le mie ricerche, le mie battaglie, fino alla chiusura avvenuta nel 2000. Con gli anni è cresciuto il sentimento in alcuni che io potessi dire qualcosa.
Ma non ci sono parole di un guru, solo anni vissuti fra mille contraddizioni, senza mai smettere di cercare la Verità, non per imporla agli altri, ma per capire il senso di settant’anni vissuti senza possedere la ricetta della perfezione. Come nella poesia di Rasim:
Dov’è la verità zingara?
Da quando mi ricordo
giro con la tenda per il mondo
cerco amore e affetto,
giustizia e fortuna.
Sono invecchiato sulla strada
non ho trovato un vero amore
non ho sentito la parola giusta.
La verità zingara dov’è?
Parliamo, dunque, di Rom e Sinti, di Zingari, insomma (non fa paura la parola, perché il rispetto non si misura con parole, ma con sentimenti e azioni). Ciò significa presentare dei flash di una cultura diversa, un test per renderci conto se abbiamo compreso il valore della diversità: quella del popolo più discriminato, perseguitato, negato del mondo, con una condivisione di momenti insieme nell’arco di dieci lustri. Soprattutto, significa proporre l’incontro e il confronto, con una visione della vita e dell’esistere diversa. Non la perfezione di un modello da copiare o proporre, ma il diritto di esistere diversi, come diversi siamo noi con i nostri lati oscuri e contraddittori.
Ce n’è abbastanza, in questo obiettivo minimo, per scriverci un libro. Forse l’ho già fatto, forse devo ancora trovare la via per comunicare la mia esperienza, la mia convinzione di essere nel giusto per infondere nei giovani la fiducia in se stessi come iniziatori di una visione nuova, perché diventino la forza motrice di un cambiamento, una rivoluzione. E il modo migliore per farlo è crederci.
Il Rom baraccato, insultato, malvisto e vagabondo asociale è un’icona di come soggiacciamo a stereotipi senza verificarne la realtà. Il Rom è stato uno dei primi migranti nei vari Paesi d’Europa e nel mondo. Nel 1422 era a Bologna, come ricordano le cronache. Su di lui si abbatte subito la condanna indiscriminata e immotivata, solo perché è diverso, veste e parla diverso. Tanto basta perché la Serenissima dichiari che non vuole nei suoi territori Cingani e ordina che “nessuno dia loro ricetto” e chiunque possa ucciderlo e impadronirsi dei suoi averi impunemente…
Maria Teresa, l’illuminata imperatrice, strappava i bimbi alle famiglie per farli allevare in “sane” famiglie contadine, dove avrebbero imparato a lavorare, a non pensare e a dimenticare le proprie radici. La Germania nazista ne ha sterminati decine di migliaia, centinaia di migliaia. Cercando, perfino, di dimostrare che se sono di origini indiane, quindi più ariani di loro, erano ormai imbastarditi senza recupero possibile.
Ci prova anche la civiltà dei consumi ad assimilarli. Forse questa è la minaccia più forte di tutte e riuscirà a farli scomparire perché esalta l’avere e non l’essere. Ma, per il momento, loro sono ancora qui, malgrado tutto, fra noi, con la loro lingua indiana, le loro storie, la loro musica. Con gli artisti che hanno dato all’umanità il frutto della loro passione, Matéo Maximoff, Django Reinhardt, Torino Ziegler, Manitas de Plata, Yul Brinner, Bruno Morelli, Derek Tipler, Spatzo, Ilija Jovanović. E tanti altri. Perché, come dice un proverbio rom, “Noi siamo come l’erba che si piega quando tira il vento, ma si risolleva appena il vento è passato”.
Forse occorre guardare a Rom e Sinti sotto un’altra angolazione. Essi sono l’unico popolo che non ha mai fatto guerre e non ha mai sfruttato il lavoro altrui. Un mondo che non ha spazio per loro, non ha spazio per l’umanità. Ciò significa che non c’è spazio neanche per ciascuno di noi, sette miliardi di creature vaganti nell’universo su una palla di terra, acqua e fuoco.
All’inizio degli anni ’90 abbiamo assistito a nuove grandi migrazioni di popoli che hanno fatto parlare di società mul tietnica, ma anche di invasione culturale, inquinamento dei valori e altre sciocchezze. Mai sottolineandone le cause: colonialismo, sfruttamento, guerre fomentate da mercanti di morte, ideologie contorte e assassine. Colpe commesse sempre da altri, mai da ciascuno di noi, per conservarci i privilegi acquisiti senza altro merito che essere nati nella parte “giusta” del mondo.
Ovunque si presenti, la diversità è un valore da preservare, nel dialogo, nel confronto, nella nostra capacità non di tollerare con superba magnanimità, ma di porci con rispetto sullo stesso piano. Integrare nella nostra società modelli di vita diversi significa rafforzare la nostra identità, la nostra cultura.
Se siamo abbastanza forti, significa aprirci ad un confronto e non costringere all’assimilazione perché abbiamo paura e non capiamo. È un discorso di civiltà che dobbiamo perseguire, di conoscenza, di pace. Scriveva ancora Rasim Sejdić:
…siamo nati tutti
nudi, poveri.
…sa sam amén bijandé
nangé, čhoroŗé.

Libri citati
Criscote e Majaró Lucas, chibado andré o romanó, Lundra 1872.
O Dewleskro Newo Drom, O Newo Testamento an o romano rakepen, Marburg 2010.
CACCINI, Sigismondo (Ujfalussi), La lingua degli Shinte rosengre e altri scritti, a c. di M. Barontini e L. Piasere, Roma 2001.
COLOCCI, Adriano, Gli Zingari. Storia di un popolo errante, Torino 1889.
GJERDMAN, Olof, Erik LJUNGBERG, The Language of the Swedish Coppersmith Gypsy J. D. Taikon, Uppsala-København 1963.
JOVANOVIĆ, Ilija, News from the Other World. Poems in Romani, trad. Melitta Depner, London 2010.
PUXON, Grattan, Donald KENRICK, Berša bibaxtale, London 1988.
SAMPSON, John, The Dialect of the Gypsies of Wales, Oxford 1926.
SEJDIĆ, Rasim, Eppure cantano le loro anime, poesie, Milano.
SORAVIA, Giulio, Rom e Sinti in Italia, Pisa 2010.
SORAVIA, Giulio, Zingaro vuol dire Rom, Bologna 2010.

Giulio Soravia
Professore ordinario presso la Scuola di Lettere e Beni Culturali, Università di Bologna Alma Mater Studiorum

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