Le lingue straniere nella cultura italiana: Intervista al Prof. Claudio Peli

di Tiziana Mazzaglia  @TMazzaglia

Didattica, conoscenze e competenze in una società plurietnica e informatizzata. Intervista a Claudio Peli, docente di inglese e collaboratore di SocialNews.

La scuola italiana continua a subire tagli ai programmi e alle ore di lezione. Quali strategie propone, al fine di garantire il giusto equilibrio, nello svolgere un percorso didattico fattivo? 

«Si tratta, essenzialmente, di far fruttare il sempre minor tempo a disposizione, cercando di differenziare le attività. Com’è noto, il percorso di apprendimento di una lingua prevede l’acquisizione di molteplici abilità: una buona base di grammatica, un lessico e fraseologia adeguati a situazioni quotidiane, buone capacità di ascolto e comprensione, abilità nel produrre oralmente e per iscritto una lingua sufficientemente chiara. Il dato sconfortante è che il tutto va, o andrebbe realizzato, con tre ore alla settimana. Sembrerebbe voler fare le nozze con i fichi secchi, se si pensano alle scarse risorse a disposizione dei docenti oggi. Ma, come spesso capita in questo nostro Paese, si lascia all’inventiva e alla professionalità degli insegnanti sopperire alle difficoltà quotidiane e alle carenze strutturali. Eppure, all’insegnante di lingue di oggi si chiede di essere sempre aggiornato sulle nuove tecnologie. Giusto, peccato però manchino a volte gli strumenti per mettere in pratica quanto acquisito. Prima ancora di sapere usare l’ultimo modello di tablet, credo sarebbe opportuno poter disporre di opportunità di aggiornamento sulla propria disciplina, approfondendo le conoscenze e imparando sempre nuovi approcci, per veicolare una materia utile e subito fruibile nel quotidiano, ma che non sempre è percepita come tale dagli studenti. Continuo a stupirmi del fatto che più aumentano gli stimoli esterni – pensiamo a internet o ai tanti canali che  trasmettono programmi in lingua originale con sottotitoli – più si abbassano i livelli di motivazione da parte di molti ragazzi ad apprendere entusiasticamente una lingua straniera».

Molto spesso, le conoscenze sono limitate a regole grammaticali da applicare e si trascura la pronuncia. Gli adolescenti sono abituati a ‘canticchiare’ testi di canzoni, spesso, senza conoscerne la traduzione, anche il web è invaso da terminologie straniere, eppure, ancora pochi masticano un inglese corretto. Quali sono i passi corretti da svolgere, per ottenere una corretta padronanza di una lingua straniera? 

«E’ una questione di scelte personali. Purtroppo, dovrei aggiungere, perché prestare attenzione alla pronuncia dovrebbe essere una prassi didattica quotidiana e spesso non è così: tutti presi dalla frenesia di ‘finire il programma’, molti docenti tralasciano preziosi tasselli nell’insegnamento della loro disciplina. La fonetica, per una lingua come l’inglese, è imprescindibile da ogni altra attività. E’ essenziale far capire agli studenti, infatti, che articolare i suoni in maniera chiara e più vicina possibile a come li pronuncerebbe un madrelingua, non solo facilita l’atto comunicativo (a volte già reso difficile da altri fattori), evitando a volte imbarazzanti fraintendimenti, ma denota anche un certo rispetto per l’interlocutore e migliora l’approccio psicologico verso l’altro. E’ incredibile come molti ragazzi sappiano canticchiare, come ricordava Lei stessa, canzoni a memoria con una discreta pronuncia, poi quando li facciamo leggere o parlare, escono fuori suoni improponibili. Non si capisce dove nasca questo scollamento. Ovviamente, come ricordavo all’inizio, tutto sta nelle capacità e soprattutto nella volontà dell’insegnante di motivare ed educare, fin da subito i propri alunni all’ascolto, all’identificazione e riproduzione di certi suoni. E prima si comincia più incoraggianti sono i risultati».

Come mostra il Suo profilo di collaboratore di SocialNews, Lei ha svolto e sta svolgendo funzioni di traduttore. Ci può illustrare cosa significa concretamente tradurre, ovvero, ‘traslare’ un testo? 

«Sono state scritte innumerevoli pagine su cosa voglia dire tradurre, e schiere di linguisti hanno detto la propria. E’ tuttavia rincuorante vedere che, nonostante le tecnologie vadano perfezionandosi sempre di più, la capacità di trasferire concetti astratti, da una lingua all’altra, rimane e spero rimanga sempre, una prerogativa squisitamente ‘umana’. La traduzione è infatti, un’operazione linguistica talmente complessa da sfidare e battere su tutta la linea gli strumenti tecnologici più moderni e sofisticati. Nel tradurre, non si può solo tenere presente il messaggio e il codice linguistico adottato dall’autore del testo nella lingua di partenza: occorre tener conto, anche, del lettore o destinatario, in quanto interagente con il testo stesso. Chiarezza e comprensibilità della traduzione, quindi, non sono obiettivi raggiungibili solo rispettando le regole grammaticali e del lessico specifico. Tradurre efficacemente vuol dire riprodurre quei meccanismi mentali a cui l’autore ha fatto riferimento, per rendere al meglio il suo messaggio, allo scopo di sollecitare un tipo di reazione emotiva da parte del suo lettore, una reazione che non deve assolutamente andare persa in una traduzione fiacca o brutalmente letterale. Mentre, in una traduzione letteraria, che i traduttori chiamano più opportunamente ‘semantica’, forma e contenuto devono essere in perfetta fusione, perché è ogni singola piega del linguaggio a veicolare il messaggio, in una traduzione comunicativa, tipica degli articoli di giornale o di scritti di carattere tecnico o scientifico (quali quelli di cui mi occupo per SocialNews), è importante cogliere l’aspetto informativo e renderlo nel modo più chiaro e diretto possibile. Non è raro che il traduttore migliori, nella sua opera di ‘ricostruzione’ nella lingua di arrivo, il testo di partenza, operando con la perizia acquisita dopo anni di esperienza, una serie di scelte lessicali e fraseologiche, affinché la fluidità del messaggio non venga rallentata da meccanismi linguistici della lingua di partenza che, una volta ritradotti, finiscono per impaludare concetti a volte molto più semplici. Se, da una parte l’inglese, per sua natura, impone questo processo di semplificazione rispetto a soluzioni più elaborate in italiano, dall’altra fa uno straordinario uso di espressioni idiomatiche e verbi frasali che conferiscono all’enunciato un sapore tutto particolare, più vicino alla sensibilità linguistica di un parlante madrelingua. Ed è esattamente questo che trovo appassionante: confrontarmi ogni volta con le complessità di un testo italiano e misurarmi con gli strumenti, che l’inglese mette a disposizione passando per le tre fasi canoniche del processo traduttivo: analisi, trasposizione e ristrutturazione. La traduzione richiede tempo, riflessione, comparazione, approfondimento, una buona cultura e, last but not least, un’ottima conoscenza della lingua di arrivo oltre a quella di partenza. Se viene a mancare anche uno di questi ‘ingredienti’ la torta deluderà le aspettative. Viceversa, ogni concetto interpretato e riproposto efficacemente è una soddisfazione che solo coloro che si dedicano a questa attività, con passione e professionalità possono realmente comprendere. Un invito, dunque, a vedere l’attività del traduttore non come di colui che travasa vino da una bottiglia all’altra, ma come l’opera di un vasaio che con mani esperte modella la creta, per trarne un oggetto unico, frutto di pazienza e  maestria. Il traduttore, dunque, come un ‘artigiano del linguaggio’ che si avvale delle moderne tecnologie, ma che ancora sa attingere a un patrimonio di saperi acquisiti con lo studio che, mi auguro, la scuola, a ogni livello, riesca sempre a trasmettere con efficacia e competenza».

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