L’emergenza dei profughi

Laura Tangherlini

“Sono stati due anni di distruzione. Ho perso la speranza, la sicurezza, tutto è andato distrutto”. Eccolo il bilancio dopo due anni di guerra siriana per Abu Mohammed.

Baalbek, Libano. Arrivo al Sawa Center. Sawa è una ONG tramite cui Unicef porta avanti qui alcune delle sue attività di assistenza. Sono arrivata tardi e mi sono persa gran parte delle distribuzioni di vestiti e scarpe. Ma qualcosa riesco ancora a filmarlo. E comunque, a testimonianza di quanto avvenuto fino a qualche momento prima, ci sono centinaia di scatoloni ormai vuoti sul prato antistante l’edificio. Soha, la responsabile dell’Unicef che mi accompagna, ci tiene a precisare che entro un paio di ore avranno ripulito tutto. Mi spiegano che queste distribuzioni al Sawa Center avvengono quasi ogni giorno o, almeno, appena dall’Unicef ricevono i vestiti. Finora, da gennaio, 3.500 gli scatoloni distribuiti.
Fuori da qui, poi, distribuiscono, oltre che vestiti e scarpe, coperte e teli di plastica per le tendopoli arrangiate a Taibe, Talabiad, Addus e Tamnin. Mentre uno dei responsabili di Sawa mi fornisce queste informazioni, vedo un gran numero di bauli metallici uscire dall’edificio e venire caricati su un camioncino.

Mi spiegano che il venerdì e il sabato, a Deir Ahmar, hanno quello che qui al Sawa definiscono un mobile theatre. In pratica, ai bambini e ai ragazzi dai 9 ai 18 anni, insegnano come non ricorrere alla violenza per risolvere i problemi e forniscono linee guida e indicazioni su un corretto washing behaviour. Mi invitano ripetutamente ad andare a vedere, ma per venerdì e sabato ho già concordato interviste con altre ONG e agenzie ONU. Tra poco cominceranno le remedial classes. Ovvero lezioni, dalle 15 alle 17 almeno, di inglese, scienze, grammatica araba, matematica. Per i più piccoli, due ore di disegni e canzoncine. Studenti totali 220, otto insegnanti libanesi e palestinesi, più uno siriano che funge più che altro da animatore per i bambini più piccoli. Un modo per far dimenticare a queste giovani innocenti vittime della guerra siriana che cosa hanno passato, un modo per ridare loro una parvenza di normalità, e un aiuto ai più grandi ad inserirsi nel sistema scolastico libanese, più complicato per loro di quello siriano.
In Libano, infatti, materie come le scienze e la matematica sono insegnate in inglese e francese, mentre in Siria l’insegnamento è completamente in arabo. Dunque, gli studenti siriani hanno bisogno di colmare le loro lacune linguistiche. Queste classi sono state attivate da Sawa già nove mesi fa, e da due le portano avanti in collaborazione con l’Unicef. Classi che sono, però, aperte anche agli studenti libanesi che hanno particolari difficoltà.
Lo scorso settembre, l’Unhcr ha lanciato la campagna Back to school, che coinvolge anche Save the children e, appunto, Unicef per permettere anche ai bambini non registrati, grazie ad una decisione ufficiale del Governo libanese, di iscriversi alle scuole pubbliche libanesi, con le rette pagate dall’Unhcr e i libri pagati da Beirut. Resta, però, il fatto che gli insegnanti sono in sciopero da settimane per chiedere un aumento dei salari e che nelle aule non ci sono quasi più posti.
E allora, spesso, queste attività serali diventano per i profughi siriani l’unico momento di scuola, e di aggregazione, per i più piccoli. I pulmini che portano qui i piccoli studenti non sono, però, ancora arrivati. Ecco, allora, che Soha mi suggerisce di parlare con un uomo appena arrivato per portare le sue due figlie e il loro fratellino più piccolo a seguire le lezioni. È una bella e calda giornata. Mi siedo con loro sul prato.
“Sono stati due anni di distruzione. Ho perso la speranza, la sicurezza, tutto è andato distrutto”.
Eccolo il bilancio dopo due anni di guerra siriana per Abu Mohammed.
“Non ho soldi, non ho più nulla. Sono rimasto con 65 dollari in tasca. Ad aprile ho l’appuntamento fissato con l’Unhcr per registrarmi, ma fino ad allora come faccio? I bambini non possono aspettare per mangiare e per me conta più di tutto il loro benessere psicologico. Voglio solo una vita decente e la certezza di essere al sicuro per me e per i miei figli. Non chiedo altro. Tanto, io sono morto, anche se sono in vita”. La morte per Abu Mohammed è arrivata non a dicembre, quando due esplosioni hanno distrutto i suoi due negozi, ma il 18 gennaio, quando un altro bombardamento ha distrutto la sua casa, menomato sua moglie e, soprattutto, ucciso suo figlio di 11 anni. Dopo 6 mesi aveva finalmente ottenuto i passaporti per tutti i suoi quattro figli. Nonostante le lungaggini del Governo, ci tiene a sottolineare. Avevano capito da tempo che bisognava scappare, ma per uno di loro quel documento è arrivato troppo tardi. “Insieme alla mia casa sono andati distrutti tutti i miei ricordi e le foto. Non ho più nulla che testimoni la vita vissuta dalla nostra famiglia fino a quel giorno. La sola foto di mio figlio è questa – tira fuori dalla tasca un documento – Conservo con me il suo passaporto. E un’altra foto sua sul telefonino”. Me li mostra con irruenza e parsimonia allo stesso tempo, e, prima di rimetterli a posto, in una busta di plastica consunta che funge da cassaforte, l’altro figlio, il più piccolo, vuole guardare ancora una volta la foto del fratello. Sono pochi secondi, ma sembrano, per me, interminabili.
Mi perdo nel riflesso profondo con cui Mahmoud fissa l’immagine del fratello maggiore. Le sue piccole mani che stringono forte il cellulare dov’è la foto e non vogliono lasciarlo andare. L’uomo continua a raccontare. Con la voce ancora tremolante. Ma ha rialzato il volto, che teneva nascosto tra le mani. Ha smesso di piangere. Un pianto che aveva tentato invano di soffocare. Riducendolo ad un pianto silenzioso. Le lacrime e un dolore enorme, capace quasi di urlare e andare oltre le parole pronunciate, che mi hanno commosso.
Il racconto, dicevo. Sua moglie è ancora viva, ma sul volto reca i segni indelebili di quel giorno. Si trova in Siria ora. Vive, per difendersi dalle bombe, nei sotterranei di qualche appartamento. Più di questo Abu Mohammed non sa. “E in ogni caso – dice – mia moglie, purtroppo, non è in condizioni di viaggiare, il medico gliel’ha praticamente proibito. Comunque non le permetterei di riavvicinarsi ai miei figli perché il suo volto orrendamente sfigurato ricorderebbe loro ogni secondo ciò che hanno passato. Non posso permettere dunque un ricongiungimento, almeno fino a che non avremo i soldi per poterla operare al volto”.
Non riesco ad afferrare il senso delle sue parole, mi sembra di capire che l’abbia come ripudiata o, almeno, abbandonata. Per una colpa di certo non imputabile ad una povera donna che ha perso, a questo punto, non uno, ma quattro figli e un marito. Allora insisto, e chiedo se questo significa lasciarla al suo destino, senza alcuna intenzione di rivederla. L’uomo risponde per tre volte allo stesso modo. La chiave sempre in quel volto sfigurato. Questa famiglia ha ben chiaro ciò che ha già passato. A ricordarglielo, oltre al volto sfigurato della donna, c’è quello di un ragazzino di 11 anni diventato per tutti una reliquia. Nonostante sorelle e fratelli provino ad andare avanti. Nemin vuole solo studiare e Amina è la più brava del corso di inglese. Ha appena preso 20/20 all’ultima verifica che il padre ci mostra con orgoglio, ma ciò non può bastarle per tornare ad essere felice. “Io spero che la Siria torni ad essere sicura – dice. E poi tra le lacrime aggiunge, rispondendo ad una mia domanda: – più di tutto, ciò che mi manca del mio Paese è mio fratello”.
Li saluto ancora con gli occhi lucidi, anche se cerco di farli sorridere. Bacio le bimbe e abbraccio forte anche il piccolo Mahmoud, chiedendogli di esibirsi per le telecamere. So che ora sa contare bene in inglese, lo stuzzico. Lui si vergogna, ma, alla fine, mi accontenta e si mette a contare.
One… two… three… four… five… six… seven… eight… nine… ten. Conta fino a 10. A 11 non ci arriva. Forse non è in grado, o forse non vuole. È proprio a quel numero di anni, a quell’età, che una bomba gli ha portato via quello che era anche il suo migliore amico.

Eccomi ad Arsal, 7 km in linea d’aria dal confine con la Siria. L’unica ONG ad operare in questa zona, una ONG italiana, fornisce supporto educativo e psicosociale. Grazie a loro, anche qui si tengono corsi pomeridiani sei giorni su sette. Due le scuole pubbliche messe a loro disposizione dalla municipalità.
Faccio un giro per le aule. Le attività scolastiche sono variegate e improntate al gioco. In un’aula si disegna e si impara come si formano i colori. In un’altra ci si scambiano i giochi da un gruppo di bambini all’altro allo scadere della mezz’ora. In un’altra si gonfiano palloncini. Tra tutti, mi colpiscono Ibrahim e Isra. La sindrome di down dell’uno e il ritardo mentale dell’altra. Hanno circa 6 anni entrambi, non hanno nulla a che fare con il dramma siriano. Sono, però, troppo teneri per passare inosservati. Anche se non sono in grado di rispondere a nessuna delle mie domande. Lui si mangia quasi il microfono mentre mi sorride in camera, lei rimane a fissarmi a bocca spalancata e ripete con un filo di voce la stessa incomprensibile frase. Ad un certo punto, una donna entra nell’aula e Ibrahim corre ad abbracciarla dimenticandosi improvvisamente del palloncino arancione che stava invano tentando di gonfiare. È una psicologa, lavora con questi ragazzi durante le lezioni pomeridiane.
Mi aspetta nel corridoio, con in mano una cartellina piena di disegni che vuole mostrarmi.
“Nelle nostre attività, la prima cosa che facciamo è chiedere loro di disegnare qualcosa. Uno di loro ha disegnato questa bandiera” mi spiega tirando su il primo disegno. È di nuovo una bandiera siriana. Poi passa a mostrarmi l’elaborato ed a raccontarmi il percorso compiuto da un altro studente.
“Quest’altro è un caso su cui vale la pena soffermarsi. Qui, come vedi, ha disegnato un carro armato che sta facendo fuoco sulla sua casa e c’è un uomo rimasto ucciso. In questo disegno ci sono due persone morte che stanno ascendendo verso il cielo. Quando gli ho chiesto chi fosse quest’altro uomo più in basso, lui mi ha risposto che era un uomo dell’esercito; e quando gli ho domandato perché l’avesse ritratto a testa in giù, mi ha risposto che egli sta guardando quelle persone morte, ma non sta facendo nulla per proteggerle. Questo cuore l’ha disegnato sempre lo stesso bambino che ha 14 anni, ma il punto è che, dopo un periodo trascorso qui a scuola, quando gli chiediamo di nuovo di disegnare, ci rappresentano oggetti che denotano sentimenti più positivi, come fiori o cuori”.
In che condizioni psicologiche arrivano i bambini scappati dalla Siria con cui avete a che fare ogni giorno?
“Sono, ovviamente, traumatizzati. Il che può esplicarsi in vari modi. Innanzitutto, ed è la maggioranza dei casi, sono aggressivi. Ma è facile capire che ciò dipende dalla guerra, non si tratterebbe del loro vero carattere. Lo capisci subito, quando cominciano a parlarti e ti raccontano, ad esempio, che, mentre stavano bevendo il tè, gli è crollata la casa in testa per le bombe. Altri, invece, sono particolarmente introversi perché hanno assistito a troppe scene di dolore e violenza”.
Mi faccio raccontare altri episodi o reazioni di questi bambini che possano ulteriormente farmi capire il loro stato d’animo.
“Ad una delle nostre bambine di 8 anni ho chiesto cosa avrebbe fatto con i soldi se fosse stata ricca e lei mi ha risposto che avrebbe comprato le finestre per la casa perché l’esercito le aveva rotte tutte, ma che avrebbe comprato anche le tazzine da caffè per regalarle alla sua mamma e renderla di nuovo felice. A una ragazzina di 15 anni, cui avevo raccontato una barzelletta, ma che rimaneva impassibilmente seria, al mio insistere sul perché non sorridesse ha risposto: come posso sorridere se non conosco la sorte dei miei fratelli! Un altro di 12 anni ha cominciato a raccontami della sua vita passata, quando si trovava ancora in Siria. Poi è scoppiato a piangere dicendomi che aveva anche un cane, che per scappare l’avevano abbandonato ed ora lui si sentiva in colpa e Dio avrebbe fatto bene a punirlo perché quel cane era sotto la sua responsabilità”. Penso al mio cane. E penso che mia sorella, con i soldi, si comprerebbe un i-phone.

Tratto dal libro.

Laura Tangherlini
Giornalista, scrittrice, conduttrice di Rainews 24

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