Il cuore pulsante della thawra siriana

Lorenzo Trombetta

Le uniche fonti di informazioni sulla questione siriana del lettore medio di giornali in Europa e in Nordamerica sono quasi sempre i distratti resoconti dei media occidentali, affidati a giornalisti che, molto spesso, non conoscono né l’Arabo, né il contesto siriano. Il risultato è una rappresentazione binaria e alterata del conflitto in corso

Fino alla fine di agosto, il lavoro giornaliero di Maryam è stato quello di distribuire giocattoli e altri aiuti ai bambini dell’area suburbana di Damasco, meglio nota come Ghuta, un tempo verdeggiante oasi attorno alla più antica città della regione e da oltre due anni roccaforte della rivolta popolare contro il regime della famiglia Assad, al potere in Siria da quasi mezzo secolo.

Maryam si trova da poco meno di un mese nelle carceri degli Assad. I familiari di Maryam, una tesi di dottorato conclusa, ma ancora da discutere all’Università di Damasco, non sanno in quale cella e in quale sezione dei servizi di controllo e repressione lei si trovi. È stata arrestata perché a un posto di blocco, in uscita dal centro di Damasco e diretta nella Ghuta, è stata trovata con indosso una somma di denaro destinata alle famiglie di alcuni sobborghi costantemente sotto il fuoco dell’artiglieria e dell’aviazione del regime. Fino a quando Maryam si era limitata a caricare giocattoli nella sua auto, i miliziani lealisti l’avevano sempre fatta passare. Mille domande, qualche battuta e qualche allusione, ma la sua missione era sempre andata a buon fine.
Dietro le sbarre è finita, a oltre 500 chilometri di distanza, anche Samar, della regione di Aleppo. La prigione nella quale è rinchiusa non è però gestita dal regime degli Assad, bensì da una delle sigle più influenti del jihadismo armato, che nella Siria in guerra ha trovato un nuovo terreno fertile di scontro. Samar è stata arrestata dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, all’estero noto con la sigla Isis e localmente conosciuto, invece, con l’acronimo Daesh. Il “crimine” di Samar è quello di aver “offeso la reputazione” dello Stato islamico con alcuni post sul suo profilo personale Facebook. Le parole espresse da Samar erano quelle di denuncia pronunciate dalla stragrande maggioranza della popolazione della regione di Aleppo, da tempo non più sotto il controllo del regime, ma sempre più infestata da bande di jihadisti o di criminali comuni, che usano la bandiera nera dell’Islam radicale come elemento di legittimità per compiere scorribande ed imporre il loro potere.
Samar, studentessa universitaria con il desiderio di iscriversi ad Archeologia in un ateneo italiano, lavorava attivamente come Maryam nei comitati di coordinamento degli attivisti del movimento non violento anti-regime. Da tempo, però, come molti altri, aveva espressamente dichiarato di lottare non solo per la prima rivoluzione (“far cadere il regime”) ma anche per la seconda (“liberarsi delle bande di estremisti e banditi”). Di Maryam e di Samar sono piene le carceri del regime; e di attivisti siriani come loro si stanno riempiendo anche le prigioni dei cosiddetti jihadisti. Chi è finora riuscito a scampare alla doppia morsa oscurantista e dittatoriale, lavora in silenzio ogni giorno a sostegno della propria gente. Tenta di assicurare i servizi essenziali alle vittime della guerra in corso – combattuta con armi convenzionalissime – e a proseguire il lavoro di sensibilizzazione di quel che rimane di una società siriana che, comunque vada, proseguirà la sua doppia thawra (rivoluzione).
La realtà di Maryam e Samar è sempre più ignorata dai grandi media, occidentali e non. Il dibattito in corso sul presunto uso di armi chimiche in Siria, con l’appendice finora solo retorica legata ad un minacciato attacco militare occidentale, ha contribuito a distogliere l’attenzione dal dramma di una parte consistente del popolo siriano, che nella primavera del 2011, si è per la prima volta rivoltato contro il regime, resistendo in modo pacifico ai primi mesi di repressione militare e poliziesca e poi con le armi. La militarizzazione della rivolta, a partire dai primi mesi del 2012, ha consegnato al regime il pretesto migliore per intensificare la repressione, aprendo così le porte alla regionalizzazione del conflitto ed all’arrivo graduale – in nome di una Jihad che con la causa siriana ha poco a che fare – di migliaia di mercenari stranieri. Le uniche fonti di informazioni sulla questione siriana del lettore medio di giornali in Europa e in Nordamerica sono quasi sempre i distratti resoconti dei media occidentali, affidati a giornalisti che, molto spesso, non conoscono né l’Arabo, né il contesto siriano. Il risultato è una rappresentazione binaria e alterata del conflitto in corso: “O Assad o gli estremisti islamici”. Ovvero, o “la stabilità e la sicurezza” assicurata per decenni da una dittatura con cui l’Occidente ha fatto sovente affari e che non ha mai infastidito il “nemico” israeliano, o il caos e la violenza dominati dai tagliagole barbuti, dagli uomini neri che minacciano la sopravvivenza dei Cristiani di Siria – gli unici Siriani di cui le opinioni pubbliche occidentali e i loro media sembrano essere interessati.
Non è Cristiano, invece, e di nero ha solo baffi e i capelli Abu Maryam. Padre di famiglia, ma, soprattutto, un altro attivista anti-regime di Aleppo finito di recente in una cella dello Stato islamico. Qualche tempo prima di essere fatto prigioniero, Abu Maryam così scriveva: “Vogliono fare uno Stato islamico. Ci hanno detto che vogliono combattere contro il regime, ma stanno combattendo contro di noi. Ci dicono che ci daranno pane, elettricità e acqua, ma noi queste cose ce le avevamo già sotto Bashar (al Assad). Noi non vogliamo né pane, né acqua, noi vogliamo un po’ di dignità e libertà.
Per questo, per favore, provate a capire, non accetteremo mai un Stato che non rispetti la volontà del popolo. Se pensate che siamo stanchi, sbagliate. Noi sappiamo che la rivoluzione vera non è ancora cominciata. E se mi dite che voi siete “l’autorità legittima”, vi dico “no!”, siamo noi l’autorità legittima. E se mi chiedete chi siamo noi, vi rispondo: “Noi siamo il popolo siriano libero!”.

Lorenzo Trombetta
Studioso di Siria contemporanea e cofondatore del portale di approfondimento SiriaLibano.com, corrispondente dal Medio Oriente per Ansa e LiMes, autore del libro “Siria. Dagli Ottomani agli Assad. E oltre”, Mondadori 2011

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