Il lato oscuro della tassazione

Raffaello Lupi

Ha preso forma la figura dell’”evasore-ladro”, in quanto usa i servizi pubblici senza pagarne il costo, ma a differenza dei “ladri”, l’operatore economico evasore crea comunque reddito, produce servizi, offre lavoro, contribuisce alla crescita. Lo stesso non si può necessariamente dire della spesa pubblica cui viene destinato il gettito fiscale, spesso solo erogazione di reddito creato da altri, senza la produzione di alcun effettivo servizio.

1. Anche leggendo molti degli scritti inclusi in questo numero di SocialNews si percepisce facilmente il disorientamento della pubblica opinione davanti all’ evasione fiscale. In mancanza di un punto di riferimento scientifico, le classi dirigenti analizzano il fenomeno utilizzando i più svariati e scoordinati contributi di economisti, giornalisti, sindacalisti, uomini delle istituzioni e polemisti vari. Si tratta di tentativi anche lodevoli, ma in ordine sparso, che enfatizzano le spiegazioni più varie, da quelle secondo le quali l’evasione dipende dalla scarsa qualità della spesa pubblica a quelle che parlano di mancanza di volontà politica (il fantomatico “partito degli evasori”), a quelle sulle aliquote troppo alte, alla scarsità dei controlli, all’eccessivo intervento dello Stato nella vita sociale ed alla mancanza di senso civico. Ciascuna di queste spiegazioni coglie un po’ di verità, ma risulta insufficiente rispetto alla complessità della questione. Questa deve trarre origine dai presupposti di cui diremo al punto seguente.

2. Partiamo dal presupposto che “le tasse si pagano quando qualcuno le richiede” o, meglio, quando si avverte la probabilità che, se non le pagassimo, qualcuno le richiederebbe assieme ad una sanzione. Del resto, le imposte si chiamano così perché, se qualcuno non le impone, nessuno le paga. Per “imporre le imposte” occorre qualcuno che si presenta, stima la ricchezza e le richiede. La storia, oltre che il buonsenso, insegnano come non si possa “tassare per legge”. Serve un apparato amministrativo, presente con una certa sistematicità su una quota significativa dei contribuenti. A questo scopo, oggi, vengono utilizzate le organizzazioni aziendali. Basta un’occhiata alla provenienza del gettito tributario italiano per capire che esso giunge prevalentemente attraverso le rigidità amministrativo – contabili delle organizzazioni aziendali di una certa dimensione. Le prime 4.000 aziende italiane in ordine di fatturato forniscono quasi il 70% del gettito. La percentuale cresce se aggiungiamo le aziende di erogazione pubbliche, a partire dagli enti locali e dallo Stato. La parte maggioritaria di questo gettito arriva perché “attraverso le aziende” vengono tassati consumi, risparmi e redditi di altri soggetti che con esse entrano in contatto. La tassazione viene quindi “esternalizzata”  sulle aziende come moderni esattori del fisco. La tassazione attraverso le aziende “segue” le procedure contabili e documentali della ragioneria, su cui si inserisce il fisco, in una sorta di “esternalità positiva” della gestione aziendale e questo fa capire i motivi dell’evasione fiscale dove le aziende non arrivano, specialmente nel lavoro indipendente al consumo finale. Al “lavoro nero” o non sufficientemente remunerato si riferiscono, infatti, i 120 miliardi di imposte evase stimati dall’Istat. Più che di una stima, si tratta di una “sottostima” perché non considera né i costi fittizi, né la ricchezza non registrata da chi, comunque, dichiara redditi superiori alla soglia di decorosa sussistenza. Dove le aziende non arrivano, le imposte tornano a dover essere, come dice la parola stessa “imposte” (cioè “richieste”) da qualcun altro, cioè gli uffici tributari. Il loro intervento spinge all’”autodeterminazione dei tributi” solo se è sufficientemente sistematico da far percepire, in caso di omissione, una elevata probabilità di una richiesta dell’ufficio tributario, assistita da sanzione. Per essere adeguatamente sistematico, quest’intervento degli uffici non può certo ripercorrere le modalità contabili delle aziende, ma deve essere “valutativo”, secondo la tradizione storica della tassazione. Sfruttare le  procedure aziendali per determinare la ricchezza ai fini tributari è facile e opportuno finchè queste procedure esistono, senza però poterle creare ai fini tributari in contesti dove non ce n’è necessità.  Dove le procedure aziendali non arrivano dovrebbe riprendere quota la tradizionale tassazione valutativa, ad opera del pubblico potere, che caratterizza la tassazione dalla notte dei tempi. Il vero guaio della fiscalità italiana è stato invece adagiarsi sul cospicuo gettito ottenibile attraverso la determinazione ragionieristica della ricchezza da parte delle aziende.

3. La moderna determinazione della ricchezza, contabile e ragionieristica, tipica delle aziende, non è stata, invece, coordinata con la tradizionale determinazione valutativa, da parte degli uffici, tipica dei secoli passati. Queste valutazioni per ordine di grandezza, sistematiche, ancorché non effettuate su ogni contribuente, avrebbero dovuto riprendere quota dove la tassazione non poteva essere delegata alle aziende o dove la loro funzione andava in qualche modo integrata. Rispetto al passato, questa tassazione valutativa avrebbe dovuto essere addirittura perfezionata, diventando più precisa per non sfigurare troppo rispetto alla determinazione contabile tramite le aziende. Il coordinamento è stato svolto, invece, con forzati tentativi di portare la contabilità dove le aziende mancavano, a partire dall’imposizione di documenti e libri contabili ad aziende unipersonali, costringendole ad utilizzare commercialisti nella superflua posizione di “direttori amministrativi esterni” di una pasticceria o di una gioielleria loro del tutto sconosciuta fisicamente. La cultura della stima, della valutazione per ordine di grandezza, era anche una cultura della responsabilità amministrativa degli uffici, del contraddittorio procedimentale condiviso, giungendo ad una stima di reciproca soddisfazione. La determinazione della ricchezza non registrata è questione “empirica”, non guidata dall’applicazione di un qualche articolo di legge, essendo una questione “di fatto valutativo”, dove gli uffici devono “mettere la faccia” senza limitarsi al riferimento ad articoli di legge. In questo si vede una specie di Caporetto della pubblica opinione italiana, comprese classi dirigenti, opinion makers ed anche alcuni autori di scritti in questo numero di SocialNews, cui vale la pena di dedicare un punto a se stante.

4. Anche sul problema dell’evasione fiscale dovrebbe scattare la funzione tipica delle accademie delle scienze sociali, cioè prendere gli spunti provenienti dall’opinione pubblica, dalle istituzioni, dalle classi dirigenti, coordinarli, integrarli e riproporli. Pur essendoci, in materia tributaria, quasi 200 cattedre nell’Università italiana, questo supporto è totalmente mancato, oppure non è andato al di là di riflessioni alla portata di tutti, per cui non erano necessari professori. Le istituzioni e le classi dirigenti hanno dovuto, quindi, fare da sole, utilizzando le proprie mappe cognitive e le proprie categorie interpretative della realtà socioeconomica, a loro volta abbastanza carenti, per motivi storici e formativi. Ha preso quindi piede una spiegazione equivoca dell’evasione fiscale in termini di disonestà e di onestà, anziché di differente determinabilità della ricchezza, a seconda della presenza o meno delle aziende. Prende così forma l’idea dell’”evasore” come untore di manzoniana memoria, capro espiatorio, figura leggendaria cui dare la responsabilità delle disgrazie collettive. Viene partorita dalla coscienza collettiva la figura dell’”evasore-ladro”, in quanto usa i servizi pubblici senza pagarne il costo. Osserviamo, prima di tutto, che neppure il più spregiudicato dei lavoratori indipendenti evita di pagare le imposte almeno in veste di consumatore, risparmiatore, utente elettrico, telefonico, di altre utenze, automobilista, ecc. Ma, soprattutto, a differenza dei “ladri”, l’operatore economico evasore crea comunque reddito, produce servizi, offre lavoro, contribuisce alla crescita. Lo stesso non si può necessariamente dire della spesa pubblica cui viene destinato il gettito fiscale, spesso solo erogazione di reddito creato da altri, senza la produzione di alcun effettivo servizio. Con la produzione, anzi, di fastidio e confusione. Davanti al problema dell’evasione fiscale, essenzialmente di perequazione, è però un diversivo replicare con la necessità di ridurre la spesa pubblica. Si deve piuttosto stigmatizzare il tentativo di supplire, dove le aziende non arrivano, attraverso i mezzi di informazione, con l’effetto di annuncio che potremmo chiamare “lotta all’evasione in televisione”. Pur fronteggiando in qualche modo l’insufficiente controllo del territorio da parte degli uffici tributari, la “lotta all’evasione in televisione”, basandosi sulla suddetta spiegazione elementare in termini di onestà, disonestà, senso civico, ecc., ha gravemente pregiudicato la coesione sociale. Si sono innescate una serie di laceranti recriminazioni tra autonomi e dipendenti, arrivando alla schizofrenia in cui gli stessi giornali criticano sulla stessa pagina la “scandalosa evasione” e le “vessazioni del fisco”. Il relativo malessere sociale, paradossalmente, si sfoga sulle organizzazioni su cui è esternalizzata la funzione impositiva. La massa dell’opinione pubblica, priva di formazione socioeconomica, trasla sulle aziende il comportamento di piccoli commercianti e artigiani. Se questi ultimi non registrano una quota importante di ricchezza, perché le aziende dovrebbero comportarsi diversamente? Per chi vede le aziende come una specie di giganteschi “omoni” dediti al profitto, con le stesse passioni degli uomini, il ragionamento non fa una piega, spiegando l’evasione attraverso onestà e disonestà. Se le aziende sfruttano i dipendenti, inquinano l’ambiente, uccidono con indifferenza negli infortuni sul lavoro, incantano i consumatori, truffano i risparmiatori e tante altre perversioni, esse non possono essere “oneste” per definizione, né avere “senso civico”. Evadono, quindi, le imposte, come fanno piccoli artigiani e commercianti, senza neppure le attenuanti dell’evasione di sopravvivenza. Nasce così, dalla mancanza di riflessione, un’idea di azienda che ha bisogno di ricchezza da nascondere al fisco, come se avesse bisogni personali, per svaghi, vacanze, figli e amori, come un artigiano o un piccolo commerciante. Un’immagine distorta che, inconsciamente, fa comodo a tutti. A partire da molti titolari di aziende, i quali le usano per nascondere ricchezza al fisco, in misura magari percentualmente modesta, ma in assoluto sostanziosa, evadendo una “modica quantità” di elevati importi. A costoro fa comodo la confusione tra ricchezza non registrata e contestazioni interpretative, perché saranno sempre queste ultime a prevalere nei confronti delle loro aziende. A chi occulta nell’ombra, scavalcando le procedure amministrative della propria azienda, le contestazioni sul regime giuridico di quello che l’azienda ha dichiarato rappresentano un utilissimo diversivo. Sono controlli innocui per l’industriale che riesce, secondo vari marchingegni su cui non mi posso soffermare in questa sede, a nascondere ricchezza. Costoro, che magari in pubblico filosofeggiano contro l’evasione, sono ben contenti che in Italia i controlli fiscali si sprechino, letteralmente, sulle 4.000 aziende “di grandi dimensioni”, cioè con un fatturato superiore ai 50 milioni di euro, considerate “grandi contribuenti”. Spesso si tratta di aziende managerializzate, dove non si nasconde nulla, ma vicende giudiziarie, non innescate dai controlli fiscali, hanno evidenziato frequenti casi di ricchezza non registrata a beneficio dei proprietari. Cui va benissimo che le aziende, in blocco, siano concepite, in modo bipartisan, come “grandi evasori”, anziché come “esattori del fisco”, concentrando i controlli sul regime giuridico del dichiarato e riparandosi da imbarazzanti indagini su ciò che, eventualmente, è stato nascosto. In questo modo, gli uffici fiscali si distaccano, però, dalla funzione principale di affiancare alla tassazione ragionieristica attraverso le aziende una tassazione valutativa attraverso gli uffici tributari. Se si toglie la riscossione delle imposte già dichiarate, e l’insieme delle contestazioni interpretative, i 12 miliardi di “gettito recuperato” si riducono ad una cifra inferiore al costo dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, le quali cercano di salvaguardare la propria immagine presentando le contestazioni interpretative in termini di “lotta all’evasione”, come se “il sommerso”, i 120 miliardi di “nero” (forse molti di più) derivassero dall’abuso del diritto e dall’elusione dei “grandi gruppi”. In questo modo si realizza un paradosso secondo cui l’attività di controllo diventa un paradiso per la ricchezza non registrata, che gli uffici temono a stimare, e un inferno per quella registrata, reinterpretata in mille modi per costruire, a tavolino, una “maggiore imposta accertata”. Da presentare, poi, alla pubblica opinione come “risultato di servizio”, indirettamente un vero e proprio invito ad omettere la registrazione fiscale della ricchezza, trasformata “dal problema alla soluzione”. Davanti alle capziose reinterpretazioni di ciò che viene registrato, serpeggia la sensazione (fondata) che l’unica soluzione sia “non registrare” e che l’unica certezza possa essere la corruzione, altro convitato di pietra di cui nessuno parla. Per chi, come le aziende, deve registrare per propri motivi gestionali, e non può corrompere, per ovvia ritrosia ad assumersi responsabilità su questioni non proprie, i tempi diventano sempre più difficili. Mentre tutti parlano di onestà e disonestà, di furbetti, di “caccia agli evasori”, di aliquote elevate e simili divagazioni, si creano meccanismi spontanei e perversi che vivono di vita propria, avvelenano l’esistenza dove nessuna ricchezza è stata nascosta ed invitano oggettivamente a nascondere, a corrompere e a farsi corrompere. Si paralizza, così, la serena e sistematica valutazione della ricchezza dove le aziende non arrivano e si contribuisce alla disaffezione, verso l’Italia, delle organizzazioni aziendali dove non si può mentire. Al loro interno, sempre più spesso, davanti alle contestazioni fiscali, e burocratiche in genere, si dice “In Italia solo per le vacanze”. Alla fine, non è un problema di “perversioni private” dei fantomatici evasori, ma una sfaccettatura di disfunzioni della macchina pubblica, con grandi responsabilità dell’accademia. Essa alimenta un’idea dissennata di onnipotenza legislativa nella determinazione della ricchezza ai fini tributari. Abbiamo visto, invece, che “per legge” non si tassa nessuno, così come, per legge, più in generale, non si amministra un Paese. Queste concezioni istintive provocano solo paralisi mentale e deresponsabilizzazione degli uffici tributari. Non solo diventano sempre meno capaci di stimare la ricchezza dove le aziende non arrivano, ma contribuiscono – con le loro contestazioni interpretative – alla destrutturazione delle aziende. Occorre, quindi, superare le confuse e superficiali spiegazioni legalistico-processuali della tassazione, modernizzando, invece, le tradizionali spiegazioni amministrativistico-economiche. Non si tratta di un intervento legislativo, ma di un processo mentale degli studiosi, della pubblica opinione e delle classi dirigenti. Da compiere prima che sia troppo tardi.

Riferimenti
Per più ampie indicazioni sull’intreccio tra aziende e istituzioni pubbliche in materia tributaria, il volume più recente dell’autore è il Compendio di diritto tributario, edito dalla Dike Giuridica, luglio 2013. Altre indicazioni si trovano sul sito www.giustiziafiscale.com

Raffaello Lupi
Professore Ordinario di Diritto Tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’

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