Un’Europa a due direzioni

Silvano Andriani

La distribuzione del reddito determina ritmo, qualità e sostenibilità della crescita economica e l’aumento delle disuguaglianze ostacola la crescita, poiché non consente un aumento adeguato della domanda interna senza la crescita dell’indebitamento.

Ormai è largamente diffusa la consapevolezza che la crisi in corso derivi da un eccesso di indebitamento. In questo consiste la sua analogia con la crisi degli anni ’30. Esistono molti altri aspetti in comune: anche la prima ebbe una portata mondiale ed iniziò negli Stati Uniti; fu preceduta dal formarsi di profondi squilibri nei rapporti commerciali fra i vari Paesi e, soprattutto, anche negli anni ’20, come nei decenni che hanno preceduto l’attuale crisi, si è verificato un forte aumento delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Il grafico seguente mostra la quota di reddito nazionale accaparrata negli USA rispettivamente dalla centesima e dalla millesima persona più ricca della popolazione. In pratica, si tratta di un indice del livello di disuguaglianza.
“The age of Mammon” Fonte: The Economist

Cosa ha generato la forte crescita dell’indebitamento, in entrambi i casi, sostanzialmente, un indebitamento privato? Proprio nei “ruggenti” anni ’20, negli USA ebbero inizio i consumi di massa. Anche lo sviluppo degli ultimi trent’anni è stato trainato dalla domanda di consumi privati. In entrambi i casi, tuttavia, le retribuzioni sono rimaste stagnanti e, di conseguenza, le disuguaglianze sono aumentate. La maggioranza della popolazione ha potuto seguire la tendenza consumistica solo indebitandosi pesantemente, indotta in questo da politiche monetarie e creditizie sconsiderate.
Arriviamo, così, ad un’importante conclusione: la distribuzione del reddito determina ritmo, qualità e sostenibilità della crescita economica e l’aumento delle disuguaglianze ostacola la crescita, poiché non consente un aumento adeguato della domanda interna senza la crescita dell’indebitamento. Esclude, inoltre, una parte crescente della popolazione dalla possibilità di realizzare le proprie capacità. La controprova si ha nei “gloriosi trent’anni” successivi alla seconda guerra mondiale: in essi, nei Paesi avanzati si realizzò la diffusione dei consumi di massa e l’edificazione dello Stato sociale senza che questo comportasse l’aumento del livello del debito totale.
La corsa al debito privato non è stata di pari intensità in tutte le Nazioni avanzate: nei Paesi anglosassoni è stata molto più forte, anche perché ad essa hanno partecipato anche le banche, le quali si sono indebitate per speculare autonomamente. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, nel 2007, il debito medio delle famiglie si aggirava tra il 120% ed il 130% del reddito disponibile. Tutti vivevano al di sopra dei propri mezzi, si verificavano forti passivi delle bilance commerciali e si adottava un indebitamento pesante sull’estero per finanziare parte dell’aumento dei consumi. USA, Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda ed Irlanda, nel 2007, assorbivano oltre il 90% dei flussi netti di capitale a livello mondiale ed erano alla base degli squilibri che si stavano formando nell’economia mondiale.
L’altra faccia della medaglia di questi squilibri è costituita dagli Stati in situazione di attivo strutturale nella bilancia dei pagamenti. In questo caso vi è, però, una differenza rispetto a quanto accadde in passato. Vale la pena metterla in evidenza. Strategie mercantiliste, caratterizzate, cioè, dal mantenere ferme le retribuzioni dei lavoratori e puntare alla crescita attraverso le esportazioni, furono perseguite, dalla seconda metà dell’800, da tutti i Paesi industrializzati ed emergenti dell’epoca. Le conseguenze furono non solo le guerre coloniali, per allargare i mercati di sbocco, ma anche pratiche commerciali sempre più scorrette e, soprattutto, il formarsi di profondi squilibri nell’economia mondiale: non tutti possono vincere in questa gara. Il sistema descritto generò guerre commerciali, grandi crisi economiche, il collasso del processo di globalizzazione e contribuì non poco allo scoppio delle due guerre mondiali.
Gli accordi di Bretton Woods ebbero come obbiettivo principale quello di evitare che si tornasse a pratiche mercantiliste e si formassero nuovamente squilibri strutturali nell’economia mondiale. Nella risposta alla crisi degli anni’30, da parte della cultura riformista fu elaborata una nuova visione dello sviluppo: la crescita economica non doveva essere finalizzata ad aumentare la competitività, cioè la potenza economica del Paese, ma ad aumentare il benessere dei cittadini. Il controllo politico della distribuzione del reddito fu la chiave di questo approccio.
Questa visione fu abbandonata con il prevalere dell’ideologia e delle politiche neo-liberiste. La differenza rispetto a quanto accaduto negli anni ’30 sta nel fatto che, negli ultimi trent’anni, solo alcune Nazioni – Germania, Giappone e, successivamente, anche Cina ed altri Paesi emergenti – sono tornati a pratiche mercantiliste. Altri Stati, in testa quelli anglosassoni, hanno deciso di fungere da consumatori di ultima istanza, finanziati dai Paesi esportatori. Il risultato inevitabile è stato il formarsi di squilibri sempre più grandi nei rapporti commerciali, cioè fra le economie reali, e nei rapporti finanziari di questi due gruppi di Stati. Questi squilibri hanno reso, nel tempo, insostenibile questo tipo di crescita dell’economia mondiale.
Anche all’interno dell’area euro sono fortemente aumentati gli squilibri. All’origine di tale fenomeno vi sono, soprattutto, due eventi. La Germania, superata la fase più critica dell’unificazione politica, alla quale aveva destinato tutte le sue risorse, è tornata formalmente ad una strategia mercantilista attraverso l’accordo governo-sindacati. Questo ha escluso la traduzione degli aumenti di produttività in aumenti salariali. Tutti i guadagni di produttività sono stati così destinati ad aumentare la competitività, cioè ad aumentare la quota del mercato mondiale e, quindi, a strappare quote di mercato ad altri Paesi. In pratica, una dichiarazione di guerra commerciale.
Questa strategia è stata favorita dal modo in cui è stato introdotto l’euro, con un immediato allineamento dei tassi di interesse. Ennesimo errore commesso dai mercati: il trattato costitutivo escludeva qualsiasi forma di socializzazione dei rischi, ciascun Paese doveva restare titolare dei propri rischi e non vi era, quindi, motivo alcuno di allineare i tassi. La conseguenza è stata la corsa all’indebitamento delle famiglie delle Nazioni che hanno beneficiato di una forte riduzione dei tassi per calmierare il divario di consumo rispetto ai Paesi più ricchi. Una corsa all’indebitamento favorita dalla prodigalità delle banche dei Paesi esportatori. Anche in Europa, fatta eccezione per la Grecia, la crescita ha riguardato essenzialmente il debito privato.
“The myth of fiscal profigalycy“ = andamento del rapporto fra debito pubblico e Pil nell’area euro;
“Household debt as % of gdp” = debito delle famiglie sul prodotto lordo. Fonte: blog del premio nobel P. Krugman

In un’area monetaria caratterizzata dalla presenza di Stati con potenziale economico molto diverso, il tasso di cambio risulterà inevitabilmente troppo alto per i Paesi deboli e basso per quelli forti, favorendo questi ultimi contro i primi. Nessuna meraviglia, allora, se, con l’entrata in vigore dell’euro, le performance commerciali della Germania sono state stupefacenti. E nessuna meraviglia che tale aumento sia avvenuto a scapito, soprattutto, di altre Nazioni europee. Il grafico seguente mostra la perfetta simmetria tra la crescita dell’attivo strutturale germanico e la crescita dei passivi strutturali degli altri Paesi.

“European current account imbalances”
Fonte: European Commission Economic and Financial Affairs

Il risultato finale è una crescente divergenza nei livelli di competitività dei diversi Paesi dell’Unione. Questa si intreccia con lo squilibrio finanziario. Siamo in presenza di un’Europa non a due velocità, ma a due direzioni. Opposte. Il modo in cui viene gestita la crisi e la strategia dell’austerità applicata sia ai Paesi in passivo, sia a quelli in attivo nella bilancia dei pagamenti, stanno accentuando lo svantaggio degli Stati più deboli: sono tornati i differenziali dei tassi di interesse e l’austerità risulterà più dura per gli Stati debitori. La Germania può ora godere anche di un forte afflusso di capitali in cerca di riparo, senza che ciò comporti una rivalutazione del cambio ed una perdita di competitività commerciale.
Se il percorso dell’area continuerà su questa traiettoria, la rottura dell’euro diventerà inevitabile. Evitarla comporterebbe una svolta con due scelte presenti da tempo nel dibattito, e sempre rifiutate dai Paesi forti:
1. Un’europeizzazione del debito accompagnata dalla possibilità per la Bce di stampare moneta ed acquistare, all’emissione, titoli di Stato dei Paesi membri. Su questo punto esistono varie proposte, compresa una formulata dai “cinque saggi” tedeschi.
2. Un piano di sviluppo europeo sostenuto da strategie di investimento finanziato soprattutto con il risparmio delle Nazioni in attivo nella bilancia dei pagamenti. Non si tratta di chiedere a quei Paesi di trasferire denaro, ma di utilizzare l’eccesso di risparmio che un attivo commerciale inevitabilmente comporta non per finanziare i consumi di altri Paesi, come accaduto in passato, ma per finanziare investimenti volti anche a ridurre le divergenze di competitività tra gli Stati dell’area.
Nessuno sa per certo se i Paesi forti dell’area, una volta che gli Stati debitori abbiano fatto ordine in casa propria, accetteranno di operare la svolta come sembra sperare anche il governo italiano. Resta, comunque, da chiedersi se il rilancio del grande progetto di un’unione politica dell’Europa, poiché di questo si tratta, possa avvenire solo con manovre interne all’elite politica ed alle tecnostrutture dell’Unione.

Silvano Andriani
Presidente della Fondazione CESPE (Centro Studi di Politica Economica)

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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