Africa mia, un’esperienza in Mozambico

Le porte dell’aereo si sono aperte, sono rimasta seduta aspettando che finisse quel momento di isteria collettiva che segue sempre la fine di un volo, per scendere dall’aereo.
Appena oltrepassato il portellone dell’aereo, un’aria calda e umida mi ha colpito il viso, insieme a quell’odore indescrivibile di terra che soffre, che ormai le mie narici conoscono bene.
Avevo lasciato belle tavole imbandite per le festività natalizie, una casa calda, tutti i miei familiari, la mia nonnina adorata e tutte le piccole cose di ogni giorno per volare ancora verso il mio Mozambico, falciato da colera, fame e miseria.
Mi risuonavano nella mente le tante domande che mi erano state rivolte poco prima da chi non ha mai provato questa felicità fatta di uno strano senso di responsabilità e passione.
“Ma perché parti per un posto così lontano?”, “Non ci sono poveri e bisognosi nella tua città?” “Perché? Quale vuoto devi colmare?” “Perché questo inarrestabile istinto di aiutare l’Africa?”…
Mi fanno sorridere e sono triste per loro. Dalla mia breve esperienza, posso dire che se ti fanno queste domande è perché le stesse persone hanno paura di guardarsi dentro, immersi in una sorta di qualunquismo egoista grande proprio come l’Africa.
La verità è che è proprio qui che entra in gioco il destino.
Perché tante coppie si sono conosciute e amate straordinariamente, pur appartenendo a luoghi che si trovano ai lati opposti del mappamondo? Cosa spinge un ragazzo di Udine a lasciare tutto per andare a vivere accanto alla sua amata in qualche fattoria persa nella lontana Australia? Nessuno lo sa, c’entrano forze che qualcuno chiama Dio, qualcun altro Destino o Caso e che, per quanto ci sforziamo, non comprenderemo mai veramente.
Arrivo al mio villaggio di Montepuez e, immediatamente, vengo accolta da mille difficoltà. C’è un’epidemia di colera che sta decimando il paese. C’è un caldo infernale. Tutto intorno dolore e miseria. Ci sono bambini così magri che non riescono nemmeno a respirare, bambini di strada che bevono l’acqua fetida delle pozzanghere, baracche infangate dalle quali escono urla disperate di neonati affamati, fantasmi scheletrici e febbricitanti, donne con bambini nelle capulane colorate che rovistano nei rifiuti.
Non si può smettere di parlare e ripartire. Dobbiamo smettere di scaricare le responsabilità, di negare l’evidenza. Manca l’acqua in ospedale, ovunque…
In queste situazioni così critiche, sono sempre i bambini i più vulnerabili. Infezioni come il colera, il morbillo e la dissenteria sono frequenti nei bimbi che soffrono di malnutrizione e ciò provoca gravi problemi di disidratazione. Eppure, l’acqua, da sola, non basta. Anche se ci fosse. Bisogna agire rapidamente. In Africa non sono necessarie apparecchiature sofisticate o medicine costose. Inizio a distribuire prima piccole razioni di latte, farina, vitamina A e antibiotici per combattere le infezioni. Se necessario, risulteranno preziosi i cateteri portati dall’Italia. I bimbi più disidratati verranno reidratati per via endovenosa o alimentati da sonde gastriche, introvabili nel Centro di salute immerso nel bush isolato del Niassa, ma che sono arrivate da Bologna e dai preziosi amici medici del Bellaria. Le razioni sono calcolate per permettere ai piccoli organismi di trovare i propri equilibri naturali. Troppe proteine, troppi zuccheri tutti insieme li ucciderebbero. Nei giorni successivi, sarà prezioso un intruglio fatto di latte in polvere, zucchero, sali minerali e arachidi. E mi accorgo che in pochi giorni questi bimbi sono fuori pericolo, riacquistano la voglia di muoversi e giocare. Anche se i bambini africani, di fatto, sono allegri, ma mai felici!
Dopo settimane di duro lavoro, in situazioni climatiche proibitive, riparto parlando con me stessa e con gli amici del cuore dei colori che costituiscono il muro del mondo, dei suoi neri, dei suoi grigi e delle responsabilità che tutti quanti abbiamo per rendere queste tonalità bianche ed immacolate. Se imbianchiamo un pezzettino, la parete sarà meno nera, e se tutti coloriamo il frammento che ci spetta, alla fine, il nero cesserà di esistere.

Anna Emilia de Vecchis
Presidente dell’Associazione JACARANDA ONLUS Italia (Progetto SOLyMED)

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