Beni immateriali e materiali

Che il progetto Giacimenti Culturali sia stato un insuccesso non lo scopriamo certo oggi. Ma un valore positivo va ad esso riconosciuto. Transitava, attraverso di esso, il concetto che i beni archeologici, in quanto giacimenti, erano qualcosa che si poteva (e si doveva) quantificare, dunque misurare, prima di decidere cosa farne.

Negli anni ’80 del secolo scorso il nostro Paese scopriva i Giacimenti Culturali. Il patrimonio paesaggistico, storico ed artistico della Nazione, al centro di una lunga azione di tutela e salvaguardia (e di una lunga tradizione giuridica), diventava qualcosa che si poteva utilizzare (e, in una versione meno nobile, sfruttare). L’idea ovviamente non era nuova, ma nuova era la prospettiva di ribaltare il principio, sentito come un po’ polveroso, che tutto quello che apparteneva alla cultura costituisse di fatto un peso per la società, un investimento a fondo perduto, giustificabile solo in ragione di un valore assoluto più alto ma astratto: quello dell’interesse collettivo. A cosa abbia portato, quel processo pure salutare di svecchiamento, è cosa nota: cioè fino a pericolose derive di ‘svendita’ (nel possesso, nella gestione) a privati di beni di proprietà pubblica. Tuttavia in questa circostanza non vorrei riflettere tanto sui destini dei ‘beni materiali’ (gli oggetti e i monumenti, abbiano essi un valore artistico o semplicemente storico), sui quali in più di una circostanza si sono levate voci autorevoli a scongiurarne un utilizzo ‘improprio’. Vorrei invece parlare di tutta un’altra categoria di beni, altrettanto importanti e utili per la collettività, che, come quelli, rischiano un’usura fino al totale esaurimento: si tratta di beni immateriali, e appartengono alla categoria dei beni archeologici.

Che il progetto Giacimenti Culturali sia stato un insuccesso non lo scopriamo certo oggi. Ma un valore positivo va ad esso riconosciuto. Transitava, attraverso di esso, il concetto che i beni archeologici, in quanto giacimenti, erano qualcosa che si poteva (e si doveva) quantificare, dunque misurare, prima di decidere cosa farne. Sfortunatamente, il contesto in cui venne concepito risentiva ancora di una certa arretratezza culturale, e la comunità scientifica non fu pronta a cogliere l’occasione per riconsiderare, in maniera appropriata, il suo rapporto con i beni archeologici. In sostanza, non avvenne quello che una decina di anni prima era accaduto in Inghilterra, dove un censimento del patrimonio archeologico delle città storiche inglesi aveva scatenato una devastante rivoluzione nei modi di guardare all’archeologia, introducendo i concetti di usura (e dunque di rischio) di quanto era sopravvissuto del passato. Tuttavia non tutto era immobile anche nella sonnolenta accademia degli archeologi italiani. Negli anni in cui anche la politica scopriva i Giacimenti Culturali, infatti, l’archeologia in Italia viveva un decisivo momento di transizione. Si traducevano in pratica, almeno in alcune regioni, quei metodi e quelle procedure che erano stati alla base di un dibattito molto acceso nel decennio precedente: lo scavo stratigrafico (a fronte dello sterro per recuperare oggetti), l’attenzione al contesto (l’oggetto singolo perdeva una buona parte del suo interesse e l’acquistava invece il sistema delle sue relazioni), la multi-periodalità (non più un’archeologia dell’antichità classica e della pre-protostoria, ma anche dei secoli più recenti).

Ma cosa significava questo cambiamento di prospettiva nel modo di affrontare il patrimonio archeologico? Si poteva adottare anche da noi, senza che tutto questo dovesse comportare una radicale, o sostanziale, modifica, non soltanto delle leggi di tutela, ma anche di quell’orientamento culturale che stava dietro a quelle leggi? Le strutture (Ministero dei Beni Culturali, Ministero della Ricerca Scientifica) erano attrezzate per affrontare questo cambiamento? In sostanza, che cosa cambiava di fatto nei modi di fare ricerca e tutela (e dunque valorizzazione)? Ripensare a quegli anni, e a quei problemi, non credo sia inattuale, perché a mio giudizio spiega piuttosto bene la criticità che oggi viviamo nei confronti dei ‘giacimenti archeologici’. Cominciamo col dire che la risposta che venne data risultò del tutto insoddisfacente: gli strumenti che normano i rapporti tra la collettività e i beni archeologici sono rimasti nella sostanza immutati (la legge del 1939, confluita quasi integralmente nel Testo Unico sui Beni Culturali); le strutture di tutela non sono state interessate da interventi radicali, ma solo da lenti aggiustamenti che hanno riguardato il numero del personale (sempre insufficiente) e l’entità dei fondi (sempre inadeguati); le strutture di ricerca e di formazione, cioè le sedi universitarie, sono restate di fatto estranee alla gestione della risorsa archeologica (che significa condivisione di scelte e partecipazione attiva nella costruzione di strumenti di conoscenza e salvaguardia). Una risposta inadeguata ha portato ad alcuni paradossi, uno dei quali è bene riassunto in un’espressione, ‘i mali dell’abbondanza’, che è anche il titolo di un bel libro di qualche anno fa di Andreina Ricci.

L‘estensione qualitativa del ‘valore dei beni da tutelare (non più la singolarità del pezzo eccezionale, per qualità o stato di conservazione, ma la totalità delle produzioni materiali del passato) unita a quella cronologica (non più l’antichità, ma anche il medioevo e, perché no, l’età moderna) ha determinato una difficoltà reale a gestire e conservare un numero sterminato di oggetti. Si parla spesso dei magazzini dei nostri Musei: ma ci si rende conto della quantità di materiali che li hanno invasi negli ultimi trenta anni, a seguito appunto di questo modo diverso di operare sul patrimonio archeologico? E che cosa dobbiamo fare di tutti questi reperti? Si sono avanzate molte soluzioni, alcune delle quali anche abbastanza singolari (come la vendita a privati); ma non si è riflettuto abbastanza sulle ragioni di tanta abbondanza e dunque non si è tentato di trovarne il rimedio all’origine, in una seria riconsiderazione del nostro mutato rapporto con il passato e con i suoi segni materiali (e con le forme che essi assumono). Come abbiamo detto, infatti, la moderna archeologia colloca al centro del suo interesse il contesto, non il singolo oggetto: è quello che le interessa, e per il quale ha elaborato sistemi complessi e costosi di indagine (a che servirebbero, altrimenti, gli scavi stratigrafici?). Dunque non sono più le ‘cosè in quanto tali (come recitava peraltro l’originario articolo 1 della Legge 1089 del 1939) che ci riguardano, ma le relazioni tra le ‘cosè. In questa situazione si realizza quello che Martin Carver ha opportunamente definito il passaggio di interesse da un valore materiale ad un valore immateriale (Monumentality versus Research). Per l’archeologo, dunque, quello che si deve in prima istanza preservare (meglio conoscere) è quel sistema, prima che venga rimosso (con lo scavo) e dunque perduto per sempre.

Si tratta di un concetto che è molto chiaro agli archeologi (un po’ meno all’opinione pubblica, alla quale si rivolgono ancora messaggi molto tradizionali sulla nostra professione), gravato da numerose e serie implicazioni, sia sul versante della tutela (come e cosa conservare, vista la dimensione anche solo quantitativa del patrimonio sepolto) sia su quello della valorizzazione (come comunicare qualcosa il cui valore sta nel racconto e non nell’oggetto in sé). Pensavo a questo quando guardavo su Science del luglio scorso il risultato sorprendente ottenuto da un gruppo di ricercatori che, con metodi non distruttivi, era riuscito a farci vedere per la prima volta come era fatta la città romana di Altino: con le sue strade, i suoi edifici pubblici (il foro, l’odeon, il teatro), le mura, il porto. Ma che cosa resta, oggi, al di sotto dei campi coltivati, di quello che riusciamo a vedere attraverso alcune splendide foto aeree? Vale la pena tentare di riscoprire qualcosa che forse non esiste più nelle sue strutture materiali, ma esiste solo nella forma che assume, a seconda delle stagioni, dei giorni e della luce? E che cosa conta per noi di più: un rudere che emerge dal terreno o il suo racconto, ancor di più se meglio contestualizzato nel suo tempo? L’archeologia ha dimostrato di rappresentare un formidabile accesso alla storia del passato, più o meno lontano esso sia da noi: rispetto ai documenti scritti, ha la capacità di farcelo toccare (gli oggetti), ma anche di farcelo immaginare (il racconto). Perché privilegiare gli uni più che l’altro? Certo, si tratta, con questo, non solo di ripensare il nostro modo di gestire un archivio sterminato, per quanto finito (e non è facile, perché impone delle scelte, talvolta dolorose, che vanno responsabilmente assunte), ma anche di utilizzarlo, affinché divenga un valore condiviso e un bene di cui tutti siano in grado di comprendere il significato. Per questo motivo, ad esempio, dobbiamo ripensare molti dei tradizionali luoghi della comunicazione, a partire dagli scavi (che dovrebbero essere, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, visitabili) fino alle aree archeologiche e ai musei, spesso insiemi di fatiscenti muretti o vetrine ricolme di oggetti dalle didascalie incomprensibili, sfoggio dell’inutile erudizione di molti dei loro curatori. Sarebbe questo un modo per rendere davvero un servizio alla collettività, per realizzare appieno la nostra funzione sociale. Se rimarremo sempre lontani e inaccessibili (e gli scavi recintati e invisibili) avremo poche speranze che i cittadini possano capire in che cosa consista davvero il nostro strano e difficile mestiere, e siano disponibili a difenderlo quando la miopia, l’arroganza e il cinismo vorrebbero che se ne facesse a meno.

Sauro Gelichi
Professore Ordinario di Archeologia Medievale Università Ca’ Foscari – Venezia

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