Un po’ di storia

Oggi il carcere appare come una realtà metafisica sempre esistita ed inevitabile. Negli ultimi due secoli, si è assistito al definitivo tramonto delle pene corporali, anche se quella capitale permane, ed al progressivo affermarsi della pena detentiva. Sino alla seconda metà del 1700, le prigioni non erano concepite come istituzioni finalizzate al recupero sociale dei detenuti, o come una pena in senso tecnico, ma come il luogo di custodia provvisoria per gli imputati in attesa di giudizio, dell’esecuzione o delle pene corporali. Le pene venivano eseguite sulla pubblica piazza, quali simboli dell’autorità e del potere del re. Verso la metà del XVI secolo, la situazione economico-sociale cambia e, in seguito ad un periodo di carenza di manodopera, si affermano tre particolari forme di sanzione, quali la servitù sulle galere, la deportazione ed i lavori forzati. Tutte attività che comportano lo sfruttamento della forza lavoro dei condannati. Con la formazione degli stati assoluti, si intensificano le pene corporali, sia in numero, sia per crudeltà. L’esecuzione della pena era una delle tante cerimonie utili al sovrano per sottolineare concretamente la distanza che lo separava dai sudditi e per mostrare la forza dell’autorità. Con la rivoluzione industriale, il carcere comincia a proporsi come soluzione applicabile al posto delle innumerevoli punizioni corporali. Durante l’epoca dell’assolutismo, la crudeltà delle esecuzioni simboleggiava il potere e la sua capacità di controllo, mentre, con la nascita delle moderne istituzioni penitenziarie, all’epoca dell’illuminismo, il carcere comincia a diventare lo strumento del definitivo abbandono delle sanzioni corporali e della loro sostituzione con la pena detentiva. Con l’illuminismo, si attua anche un radicale rivolgimento della giustizia penale, rispetto a come era stata intesa fino ad allora: si sottolinea la necessità di precetti e sanzioni uguali per tutti, ed il rispetto di forme e regole processuali meno autoritarie ed arbitrarie. Nella seconda metà dell’800, nasce il carcere moderno, concepito come rieducazione del reo e forma di prevenzione.

Tra l’800 e il 900, le carceri divengono simbolo dell’ordine sociale attraverso due nuove forme: l’isolamento, tramite il quale si cerca di ottenere il massimo della disciplina, e l’ergastolo, in cui la segregazione a vita elimina il colpevole, non con la morte fisica, ma con quella sociale. Nel Regno d’Italia, nel 1890, entra in vigore il Codice Zanardelli, che abolisce la pena di morte. Verrà successivamente reintrodotta dal fascismo. Nel 1931, il regolamento penitenziario ed il codice di procedura penale garantiscono l’impunità agli agenti di Pubblica Sicurezza per fatti compiuti in servizio. La disposizione rimane in vigore fino al secondo dopoguerra. È sulle speranze maturate con la Repubblica antifascista che iniziano le rivolte carcerarie. La prima è datata 1947, poco dopo l’amnistia che condonava tutti i delitti compiuti dai fascisti. Alla fine degli anni ’60, la nuova stagione di lotte operaie e studentesche esplode anche all’interno del carcere. La prima rivolta carceraria è del ’69, alle “Nuove” di Torino, città operaia in cui, qualche mese prima, era avvenuta la prima occupazione universitaria. La risposta alle rivolte è durissima, con i trasferimenti dei detenuti nei carceri punitivi e nei manicomi giudiziari. Nel 1975, con la Riforma numero 354, viene cancellato l’ordinamento fascista. Viene però mantenuto l’articolo 90, che permette comunque la censura per la corrispondenza esterna, la sospensione di tutte le attività culturali, sportive e ricreative, delle comunicazioni telefoniche, dei pacchi di vestiario e cibo, dei colloqui con i propri cari. L’articolo 90, ampiamente utilizzato nelle carceri speciali, sarà abolito nel 1986.

Sara Crisnaro

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