L’evoluzione della pena

Da tempo si è affermato un modo differente di concepire la privazione della libertà detentiva. Formalmente, il detenuto oggi non è uno schiavo, ma un ospite legalmente coatto dell’istituzione, per un tempo definito e a precise condizioni, portatore di una serie di diritti e doveri.

Nel nostro Paese, l’annoso riproporsi del confronto fra due “emergenze” – quella criminale e quella carceraria – alimenta ormai da lungo tempo un aspro conflitto tra tendenze contraddittorie e apparentemente inconciliabili. Si fronteggiano la richiesta di maggior rigore e sicurezza da parte di un’opinione pubblica che percepisce l’applicazione delle pene come troppo blanda e incerta; un orientamento ideologico e culturale che ancora avversa il carcere come istituzione violenta, criminogena e inefficace; la realtà di un sistema penitenziario in congestione permanente, con la saltuaria ed effimera valvola di sfogo di amnistie e indulti. Non si tratta certo di polemiche recenti, né solo italiane. All’inizio del Novecento, Emìle Durkheim, uno dei fondatori della scienza sociologica moderna, osservava che la pena detentiva, nonostante le riforme, conservava un carattere anacronistico. A suo parere, il carcere si configurava come “un’istituzione penale del passato” che, invece di scomparire, sopravviveva “per pura forza d’abitudine” e la cui apparente necessità si basava semplicemente sul fatto che, nel frattempo, non si erano sviluppate altre istituzioni “capaci di soddisfare meglio le nuove aspirazioni della coscienza morale”. In effetti, il pessimismo sembra essere stata una costante negli studi socio-criminologici sulle strutture correzionali. Una larga parte delle analisi socio-criminologiche e cliniche sostiene che la pena detentiva, e quindi la prigione, hanno sostanzialmente smarrito ogni altra funzione che non sia meramente contenitiva e affittiva. Dall’Illuminismo in poi – per dirla con Mathiesen – la riabilitazione non sarebbe mai stata altro che una giustificazione retorica dell’istituzione penitenziaria, una pura ideologia, “un sistema di credenze legittimanti”, come sostengono soprattutto le correnti abolizioniste.

Tuttavia, parafrasando il noto aforisma sulla democrazia, potremmo ribattere che se certamente il penitenziario è un male, generalmente le alternative proposte si sono rivelate anche peggiori. Infatti, non si può dimenticare il ruolo che il carcere ha svolto, e svolge, a protezione dei diritti fondamentali dell’uomo, in primo luogo quello alla vita. Si tratta di un affermazione solo apparentemente paradossale; perlomeno in area europea, a partire dal Settecento in poi, l’impiego e lo sviluppo di questa istituzione sono proceduti più velocemente, man mano che è andato crescendo il rispetto per l’integrità fisica e psichica del condannato. Con l’aumento di questa sensibilità, infatti, sono divenuti intollerabili alcuni tipi di pene, che sono stati sostituiti con la reclusione. Quali esempi significativi, si pensi, per i tempi più lontani, alla gogna ed alle mutilazioni, più recentemente, alla pena capitale ed ai lavori forzati. Occorre riflettere sul fatto che una tale funzione non è venuta meno neppure oggi. Rispetto alla pressione delle politiche securitarie ed alle istanze retributive condizionate dall’opinione pubblica, il permanere del carcere come luogo elettivo per le pene più gravi costituisce oggettivamente un argine contro le derive emotive e i correlati pericoli di imbarbarimento della società civile, dalla giustizia sommaria al linciaggio. È l’ambito in cui devono trovare attuazione due mandati, fra loro complementari e non conflittuali: uno di carattere securitario e politico (nel senso alto del termine) che attiene all’effettività della pena – nelle sue valenze trattamentali e retributive – ed alla difesa sociale; l’altro, di carattere umanitario, che deriva dalla responsabilità morale – prima ancora che normativa – di salvaguardare la dignità e l’integrità dell’essere umano che dallo stato di libertà viene affidato alla struttura reclusiva. A questo riguardo, non si può negare che negli ultimi trent’anni i dirigenti e gli operatori delle strutture carcerarie siano stati investiti, specialmente in Europa e in Italia, da spinte di specializzazione e di moltiplicazione delle competenze, la cui progressione è stata quasi esponenziale.

Si è passati dalla gestione di istituzioni teleologicamente semplici – rivolte al contenimento ed alla esclusione sociale (il carcere tradizionale visto come terminale sociale) – a quella di istituzioni teleologicamente molto complesse, nelle quali, il controllo tramite la segregazione è soltanto l’epifenomeno particolarmente appariscente di un sistema assai più articolato, teso a promuovere – almeno come istanza di principio – le potenzialità evolutive della persona. L’immagine del carcere portata ad emblema di una dimensione statica ed immutabile ha lasciato il posto ad una visione dinamica, in cui la pena viene più volte rimodulata, sia in termini di durata, sia di modalità applicative, in conseguenza della condotta del detenuto. La natura della trasformazione, che ha investito in primo luogo il mandato professionale del direttore di struttura penitenziaria, può essere focalizzata su due aspetti centrali:
– il nuovo status del detenuto;
– la cornice normativa entro cui si sviluppa l’esecuzione della pena.
Per quanto riguarda il primo punto, occorre rimarcare che da tempo si è affermato un modo differente di concepire la privazione della libertà detentiva. Formalmente, il detenuto oggi non è uno schiavo, ma un ospite legalmente coatto dell’istituzione, per un tempo definito e a precise condizioni, portatore di una serie di diritti e doveri. Infatti, la pena detentiva deve consistere esclusivamente nella temporanea sospensione della libertà di spostamento, quale prevista dall’art.13 della Costituzione, non di altre libertà fondamentali che vanno garantite a tutti i cittadini, liberi o detenuti che siano. Il concetto è ben riassunto dall’art.64 delle Regole penitenziarie europee: la detenzione in quanto tale non deve aggravare “le sofferenze inerenti ad essa”. Il secondo punto è insieme corollario e presupposto del precedente. L’articolazione e varietà dell’orizzonte normativo in cui attualmente si muove l’esecuzione penale la agganciano a riferimenti giuridici, sia interni (Costituzione e leggi ordinarie), sia internazionali (una lunga serie di Dichiarazioni, Convenzioni e Raccomandazioni).

Dunque, l’utente dell’apparato penitenziario va considerato un soggetto la cui libertà è limitata, ma nient’affatto soppressa, che mantiene quindi la titolarità di una rilevante serie di diritti, fra i quali spicca quello di essere destinatario di un adeguato progetto trattamentale che tenga conto delle sue specificità e dei suoi bisogni. Rispetto a tutto ciò, è evidente che quella che potremmo denominare la nuova mission del direttore, inteso come funzionario responsabile di strutture e servizi penitenziari – intra ed extramurali – va ri-definita entro una “griglia” che non può derivare esclusivamente dalle fonti legislative e regolamentari, ma si deve collegare ad una cornice deontologica che esprima e garantisca l’autonomia di un soggetto (vero prison manager), investito di molteplici e delicate responsabilità con ricadute dirette sulla libertà ed il benessere delle persone, non diversamente da quanto avviene per figure come quelle dei massimi quadri dirigenziali del mondo della sanità territoriale (ASL, Ospedali, Centri di Ricerca Medica, etc.). In particolare, non va dimenticato che egli non è più il mero amministratore di una pena intangibile. Occorre considerare il fenomeno – ormai consolidato – della “sanzione penale come realtà giuridica in divenire”, come taluno l’ha definita, per cui la sanzione penale comminata dal legislatore è diversa da quella irrogata dal giudice, a sua volta diversa da quella effettivamente scontata dal condannato. A tale fenomeno concorrono istituti di diritto penale sostanziale, processuale e dell’esecuzione penale. Proprio la consapevolezza di questa realtà ha portato ad introdurre nella letteratura criminologico-penitenziaria il concetto di carcere come “atelier di servizi”. In questo quadro, la redazione di una “carta” deontologica dei dirigenti penitenziari assumerebbe grande pregnanza nella percezione sociale e nella credibilità di una categoria chiamata a confrontarsi con problemi di enorme portata. In effetti, per ricevere credibilità, un professionista dev’essere ben formato, informato, possedere valori morali solidi, che si basano soprattutto su una profonda conoscenza del tema complesso dei diritti umani e dei principi di legalità: sono i traguardi che si perseguono attraverso i percorsi interdipendenti della formazione e della deontologia, la quale, etimologicamente, altro non significa che “discorso sui doveri”. Le disposizioni deontologiche dovranno esplicitare quelle direttive etiche che, riflettendo i principi generali sottostanti alle convenzioni, alle leggi ed ai regolamenti, possono e debbono orientare concretamente il lavoro dei dirigenti nei dilemmi e nei problemi che la quotidianità in concreto tante volte pone, anche negli assordanti silenzi o nell’ambiguità della norma scritta. È proprio nella capacità di creare una credibile immagine di terzietà e autonomia che il vero professionista, dirigente penitenziario, si distingue dal mero esecutore.

Pierpaolo Martucci
Criminologo, Ricercatore universitario e docente alla Facoltà di Scienze Giuridiche
Università degli Studi di Trieste, Componente esperto del Tribunale di Sorveglianza di Trieste

Enrico Sbriglia
Direttore Casa Circondariale di Trieste, Segretario Nazionale del SI.DI.PE.
(Sindacato Direttori e Dirigenti Penitenziari)

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