L’etica nella ricerca

L’attività scientifica, come ogni altra attività umana, implica scelte continue. E se queste non sono guidate dal proposito di agire secondo ciò che è conforme alla dignità di ogni essere umano coinvolto, cioè dall’etica, rischiano una dipendenza da considerazioni riferibili, soprattutto, a interessi materiali.

La ricerca sulle cellule staminali continua a costituire un singolare banco di prova circa la tenuta di alcuni principi sui quali sono stati costruiti i diritti umani fondamentali ed il riconoscimento del principio di uguaglianza in quanto cardine degli ordinamenti democratici. Non si tratta di interrogativi attinenti all’impiego di tali cellule, sebbene certamente problemi etici si pongano anche da questo punto di vista: si prenda in esame qualche tentativo un po’ precipitoso di ottenere risultati eclatanti trasferendo cellule senza un’adeguata base conoscitiva. Si tratta, piuttosto, dei modi attraverso i quali acquisire informazioni sulla funzionalità delle cellule progenitrici e, pertanto, delle scelte attinenti alle attività di ricerca. Il che rimanda alla consapevolezza del fatto che se le conoscenze, in sé, sono sempre positive, interrogativi si pongono non solo circa i modi in cui esse verranno utilizzate, ma anche circa i percorsi con cui a tali conoscenze sia possibile pervenire. La questione attiene, evidentemente, allo studio di cellule staminali embrionali. L’implicazione è l’estinguersi della vita dell’embrione interessato. Tema da anni in discussione, ma che non ha perduto il suo rilievo paradigmatico. Lungi dal costituire una sorta di palla al piede per la ricerca, la problematizzazione etica rappresenta una garanzia di libertà della medesima. Ciò anche quando comporta scelte impegnative. L’attività scientifica, come ogni altra attività umana, implica scelte continue. E se queste non sono guidate dal proposito di agire secondo ciò che è conforme alla dignità di ogni essere umano coinvolto, l’etica, rischiano una dipendenza da considerazioni riferibili a interessi materiali. L’interrogativo concerne l’inizio della vita umana, cui si ricollega la titolarità dei diritti inalienabili dell’uomo: vige il canone (kantiano) portante della moderna democrazia liberale, secondo cui l’esistenza di un individuo umano non può mai essere trattata in senso meramente strumentale.

Proprio il rispetto di questo principio costituisce un buon motivo – anche in conformità al principio di precauzione – affinché nella nostra materia le risorse disponibili siano destinate allo studio delle cellule staminali umane non embrionali (comprese le cellule somatiche riprogrammate attraverso adeguate tecniche di regressione): ambito cui finora si sono manifestate connesse le uniche prospettive concrete di sperimentazione in ambito terapeutico di questo tipo di cellule. La centralità della tutela da garantirsi alla vita umana non si fonda, come talora si sostiene, su motivazioni meramente religiose. Piuttosto, il rispetto della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali. Il principio di uguaglianza presuppone, infatti, che la dignità umana competa, semplicemente, al sussistere di ciascun essere umano e non ad un qualche livello delle capacità o delle qualità che l’esistenza in un dato momento manifesti, o al raggiungimento da parte della medesima di una qualche fase del suo svolgersi: criteri, questi ultimi, i quali dipenderebbero da un giudizio arbitrario altrui. È dunque sufficiente che esista una vita umana, secondo la moderna elaborazione dei diritti dell’uomo, perché vi sia dignità umana. Del resto, quanto distingue l’esistenza umana dalle altre forme di vita risulta inscindibilmente connesso all’essere in atto una vita biologicamente umana.La corporeità non è accidentale alla nostra vita: ciò che è tipico di quest’ultima, piuttosto, si esprime attraverso il corpo, secondo un’unità che non consente di separare il darsi della vita biologica da quello dell’umano nel suo insieme (oggi nessuno più sosterrebbe che le dimensioni psichiche o intellettive siano calate nel corpo dall’esterno).Da quando e fino a quando va svolgendosi una vita appartenente alla specie umana, è in gioco, pertanto, la presenza dell’umano e della sua dignità. Orbene, la vita di ogni individuo si identifica in un processo che, dal momento in cui ha inizio al suo termine, si svolge in modo continuo e autonomo: consiste nel risultare già e tuttora in atto un processo esistenziale coordinato e guidato dal suo interno, secondo le caratteristiche della specie di appartenenza. Il che avviene a partire dalla fecondazione o, comunque, dal momento in cui quel processo risulti altrimenti attivato (per esempio, attraverso una clonazione).

Ciascuno si ritrova in vita: in una vita che procede dal suo inizio per forza propria. In nessun momento dà impulso alla sua vita, o a quella altrui. Piuttosto, può farsi carico delle condizioni esterne necessarie affinché il suo iter esistenziale, o quello di un altro individuo, non s’interrompano anzitempo. È in grado di agire per porre termine alla sua stessa vita, ma non di avere parte attiva rispetto al sussistere della medesima. Nell’arco della vita, gli esseri umani esprimono e realizzano in modi diversi le capacità inerenti la loro umanità, che resta per tutti identica. Essi, inoltre, condividono con gli altri viventi la gradualità dello sviluppo nella prima parte dell’esistenza: anche quest’ultimo aspetto non può, però, legittimare differenze qualitative – riferite allo stato d’avanzamento dell’evoluzione psicofisica – tra vite umane egualmente in atto. Da un lato, infatti, non avrebbe alcun fondamento razionale concepire lo strutturarsi delle capacità che caratterizzano l’umano – soprattutto quelle intellettive – come distinto dal processo esistenziale nella sua unitarietà, quasi che il primo possa avere un inizio autonomo dal secondo ed essere, per così dire, abbinato dall’esterno, come già si osservava, allo sviluppo meramente biologico del corpo: le capacità tipiche dell’esistenza umana si rendono attuali nell’ambito di un percorso indivisibile, il cui inizio è uno solo e non esiste, pertanto, una fase della vita umana in cui non sia (ancora) in gioco il costruirsi delle funzioni che sono proprie dell’essere umano. Dall’altro lato, proprio il realizzarsi ab intrinseco della progressività che caratterizza la formazione delle attitudini inerenti alla vita umana, indica come già sussista, lungo l’intero corso di tale formazione, ciò che regge nel tempo il dispiegarsi della medesima, rendendolo espressione di una realtà esistenziale unitaria. Non a caso, rappresenta una delle acquisizioni più radicate della civiltà moderna il convincimento che i più piccoli non siano da ritenersi inferiori in dignità umana e in diritti, rispetto agli adulti, perché ancora non ne esprimono tutte le capacità. E infatti, il preambolo della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, citando il preambolo della Dichiarazione approvata dall’ONU sui diritti del fanciullo, afferma che il medesimo, «a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale necessita [addirittura] di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita». Talora si osserva che la distruzione di un seme appena germogliato non viene percepita come quella di una pianta al compimento del suo sviluppo. Ma la pertinenza del paragone con la vita umana è solo apparente: se, infatti, il valore che si attribuisce alla pianta è legato esclusivamente alla fruizione (estetica, agroalimentare, industriale…) che altri ne possa avere quando essa è all’apice della sua crescita (e se i semi sono largamente sostituibili), allora l’osservazione risulta ineccepibile.

Ove, invece, si discuta, come accade per gli esseri umani, di una realtà esistenziale che ha valore in sé, e non in rapporto all’altrui fruizione in una data fase della sua esistenza, allora il parallelismo non regge: nel caso in cui all’esistenza stessa della pianta fosse attribuito valore in sé – ad esempio perché la sua specie è in via di estinzione – non si sarebbe indifferenti alla distruzione del seme. Perfino chi volesse attribuire valore solo all’attualità di una vita cosciente dovrebbe spiegare perché l’adulto in coma per un trauma, e con modeste chance di recupero, va (indubbiamente) curato, mentre l’embrione, che ove lasciato vivere evolve di certo, salvo eventi traumatici, verso una fase meno precoce della vita umana caratterizzata dalla coscienza, potrebbe essere distrutto. Ben difficilmente, inoltre, un adulto potrebbe essere sincero nel dichiararsi indifferente rispetto all’eventualità che il suo embrione, nel passato, fosse stato distrutto. Se lo dichiara è perché sa che, ormai, quanto afferma di accettare non può verificarsi. Ma se questo è vero, mostrare disinteresse per il destino di embrioni diversi dal proprio viola, come spiega Jürgen Habermas, il principio di uguaglianza. Da quando è in atto una sequenza di sviluppo esistenziale coordinata e unitaria di tipo umano – cioè dalla fecondazione o dal momento in cui, secondo qualsiasi altra modalità, tale sequenza abbia avuto inizio – si tratta, pertanto, di agire verso di essa in modo conforme alla sua dignità umana, rinunciando a qualsiasi prospettiva di approccio strumentale o eugenetico. Prelevare cellule staminali interrompendo l’evolversi già in atto di una sequenza esistenziale umana, comunque essa sia stata attivata (mediante fecondazione, clonazione o, in prospettiva, attraverso l’idonea stimolazione di una cellula totipotente), contrasterebbe dunque con i principi cardine di una democrazia liberale.

Luciano Eusebi
Professore ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di Piacenza

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