La legge non è uguale per tutti

Le persone omosessuali meritano il riconoscimento della pari dignità giuridica, sia come singoli, sia come coppia. Non si tratta di creare diritti specifici, ma di combattere la discriminazione sempre presente ai danni delle persone non eterosessuali.

bernardini de paceQuest’Italia garantista con chiunque, dal clandestino all’assassino, non può rinunciare alla battaglia civile per riconoscere la pari dignità giuridica agli omosessuali. Sia come singoli, sia come parte di una coppia. La battaglia deve avere come obiettivo non la creazione di diritti diversi da quelli costituzionalmente garantiti a qualsiasi cittadino, ma -più semplicemente- impedire le tante, troppe discriminazioni di cui gli individui non eterosessuali continuano ad essere vittime:
– della società, che ancora oggi, nonostante gli illuminati esempi della maggior parte dei paesi europei, non riesce ad impedire che gli omosessuali vengano quotidianamente umiliati, denigrati ed aggrediti, anche in modo violentissimo, per strada, nei locali pubblici o nei posti di lavoro. Società che preferisce preoccuparsi di cosa fanno nelle loro camere da letto invece di porre un freno alle molteplici e gravissime manifestazioni di discriminazione di cui si hanno frequentissimi resoconti di cronaca;
– della cultura, prepotentemente influenzata e condizionata dalla “morale” cattolica, che insiste nel considerare l’omosessualità -benché ufficialmente riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità, sin dal 1994, come “possibile variante del comportamento sessuale umano”- una malattia, se non, addirittura, una forma di devianza da curare;
– della nostra legge, che, sorda alle norme sovranazionali ed agli espliciti richiami dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, invece di onorare i nostri principi costituzionali, continua a trascurare ed ignorare la questione della discriminazione omosessuale. Tutto ciò non può che portare all’aberrante risultato di nutrire l’omofobia e di legittimare gli atteggiamenti persecutori verso chi dichiara o semplicemente manifesta la propria omosessualità. Del resto, se la legge, le istituzioni e la classe politica (di destra e di sinistra) non fanno nulla per mettere, finalmente, omo ed etero sullo stesso piano giuridico e sociale, perché mai i cittadini eterosessuali, intolleranti e illiberali, dovrebbero astenersi dal trattare gli omosessuali come dei diversi, come degli individui di serie “b” e, in quanto tali, non meritevoli di alcuna protezione e tutela? La mia personale battaglia contro tutto questo è iniziata diversi anni fa, quando, al ginnasio, cambiai scuola perché venne impedita la pubblicazione sul giornalino scolastico di un mio pezzo proprio sulla discriminazione degli omosessuali. L’ho poi portata avanti negli anni con la mia professione, cercando di tutelare le tante coppie di amici omosessuali che mi chiedevano di stipulare accordi idonei a salvaguardare, almeno dal punto di vista patrimoniale, i loro partners. La continuo oggi, alzando un po’ la voce, con il mio ultimo libro -“Diritti diversi. La legge negata ai gay”, edito da Bompiani- che è rivolto proprio a tutti. Innanzitutto, agli eterosessuali, perché capiscano e riflettano che, sul piano giuridico, nel nostro ordinamento, pur mancando una norma che vieti e punisca i comportamenti discriminatori a causa dell’orientamento sessuale, non ce n’è nessuna che impedisca l’unione tra persone dello stesso sesso.

Infatti, la nostra Costituzione sancisce:
– che la Repubblica deve riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità (art. 2). E tra i “diritti inviolabili” non possiamo trascurare né quello alla sessualità e all’identità sessuale, né il diritto di formare una famiglia, anche tra persone dello stesso sesso;
– che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, senza distinzioni di sesso e di condizioni personali, e che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini (art. 3). Quindi, di fronte alla legge, dovremmo essere tutti uguali, anche indipendentemente dall’orientamento sessuale, e lo Stato avrebbe il preciso compito di rimuovere tutti gli ostacoli limitativi della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini;
– che, infine, la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (art. 29). Del quale, tuttavia, non viene data alcuna definizione. Neppure nelle altre norme ordinarie del codice. Eppure, la giurisprudenza, dando il giusto riconoscimento al nuovo sentire sociale in tal senso, ha esplicitamente riconosciuto e tutelato la famiglia cosiddetta “naturale”, non basata sul matrimonio. Ma solo se formata tra individui di sesso opposto.

Perché merita tutela il nucleo familiare non fondato sul matrimonio (in violazione del principio costituzionale di cui ho appena detto) e non anche quello tra persone dello stesso sesso, che, ribadisco, non è esplicitamente escluso dalla legge? Perché le norme civili che riguardano il matrimonio continuano ad essere ancorate al codice del 1942 e non omologate ai principi costituzionali del 1948? Il mio libro è poi, ovviamente, rivolto anche agli omosessuali, per spiegare loro che, a mio parere, non è giusto lottare per una tutela giuridica minore e assolutamente parziale (quella che si avrebbe con i vari Pacs, Dico, Di.do.re, etc.) rispetto a quella che viene (e deve essere) garantita dalla nostra Carta Costituzionale. Basti, poi, riflettere sul fatto che le norme del codice civile dedicate al matrimonio non fanno esplicito e chiaro riferimento alla diversità di sesso dei coniugi, potendo, quindi, essere anche dello stesso sesso. Considerato, però, che il nostro Stato sembra non volerne davvero sapere di porre in essere alcun piano contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e per il riconoscimento delle unioni omosessuali, in “Diritti diversi” ho voluto anche spiegare che, in ogni caso, le coppie dello stesso sesso possono tutelarsi con il ricorso alle comuni norme privatistiche, sottoscrivendo veri e propri contratti di convivenza. Accordi privati, possibili grazie all’art. 1322 del codice civile, secondo il quale “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Il limite di tali accordi è costituito dalla previsione dell’articolo 1321 del codice civile, secondo il quale “il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.

Quindi, la sottoscrizione di un simile patto è limitata alla regolamentazione delle questioni economiche della vita insieme, oppure del momento futuro in cui l’unione può naufragare o, addirittura, della morte di uno dei partner. Insomma, si tratta di uno strumento che consente, comunque, di raggiungere un grado di tutela piuttosto simile a quello che si sarebbe potuto avere con l’eventuale riconoscimento delle “Unioni civili”, dal momento che i disegni di legge visti sinora si sono sempre limitati alla regolamentazione degli aspetti patrimoniali, tralasciando le questioni ed i doveri morali che, invece, sono previsti tra coniugi. Nel lungo percorso legato al libro (per lo studio prima, e la promozione poi), ho anche avuto la possibilità di conoscere moltissimi gay, lesbiche e transessuali, che mi hanno raccontato le loro storie, ansie, inquietudini. Sono stata in molte città d’Italia, percorrendola dal nord al sud, e mi sono resa conto “sul campo” delle profonde differenze culturali rispetto alla questione dell’omosessualità. Mi sono confrontata con tante associazioni gay, ognuna con le proprie istanze e le proprie “strategie”. E così, mi sono convinta di ciò che sospettavo da tempo: che la comunità GLBT non è compatta e che, al suo interno, vengono condotte battaglie differenti e con differenti modalità. Un simile atteggiamento non può che comportare il rischio di far apparire la comunità omosessuale poco credibile di fronte alle importantissime e legittime istanze che avanza, prestando così il fianco alle ovvie critiche dei suoi detrattori. Insomma, una sorta di autodiscriminazione. E così, per quanto io abbia cambiato idea sul Gay Pride (che prima ritenevo una carnevalata, ma che poi ho capito essere, invece, un atto liberatorio e di coraggio), vorrei che per una volta, provocatoriamente, i miei amici omosessuali sfilassero tutti insieme lungo le vie di un’unica città senza parrucche e senza urla, ma con abiti normali e toni pacati. Per far capire proprio a tutti che i gay non sono dei diversi da punire o tollerare, ma persone normali che hanno la sventura di dover combattere contro l’ignoranza di eterosessuali contrari al fatto, ovvio e naturale, che l’affettività e la sessualità possano esplicarsi in modo diverso dal loro. Anche nonostante l’omofobica morale cattolica, l’inaccettabile intrusione della Chiesa nelle nostre vicende politiche e l’incapacità del nostro Paese di assumere una posizione che lo adegui non solo alle direttive europee, ma anche all’evoluzione della nostra società, all’interno della quale le famiglie omosessuali sono una realtà più che mai concreta. Non sono tanto idealista da credere che un libro possa cambiare il pensiero della cultura dominante, ma sono abbastanza fiduciosa da pensare che una solidale e autocritica riflessione degli omosessuali possa aiutarli a dominare diversamente la cultura che li discrimina: in fondo, il popolo GLBT è composto da almeno cinque milioni di individui. Un po’ troppi per continuare ad accettare di essere considerati una minoranza da discriminare

Annamaria Bernardini De Pace
Avvocato, giornalista e scrittrice

Rispondi