La storia si ripete

2.000.000 sono i bambini che hanno perso la vita negli scontri armati tra il 1990 e il 2007. Ma evidentemente questi numeri non bastano se di fronte a queste notizie la maggior parte delle persone rimangono comunque spettatori.

Il dramma della guerra è sempre particolarmente doloroso per i bambini. Le loro esperienze, i vissuti di morte, soprusi ed abusi di ogni tipo, la non-vita nei campi profughi ci vengono proposti quasi quotidianamente sullo schermo dell’informazione provenienti da vari angoli del mondo. Alcuni bambini vedono con orrore genitori, fratelli o amici combattere e morire, perdono case e beni. Altri ancora vengono rapiti, torturati, subiscono gravi condizionamenti psicologici che li obbligano ad avere un ruolo attivo nei conflitti armati e vengono arruolati come bambini soldato. I bambini soldato sono sempre più un grande dramma irrisolto per l’umanità. Si ricordano i ragazzini che un tempo rullavano il tamburo accompagnando gli eserciti in prima fila, i “passepartout” al seguito delle armate di Napoleone, i ragazzi della Wehrmacht destinati a morire nel tentativo di rallentare l’avanzata dei contingenti alleati. Chi può dimenticare i quattordicimila minori mandati a “saltare in aria” sulle mine durante la guerra Iran-Iraq per permettere l’avanzata sicura dei soldati adulti nei campi sminati?

Negli ultimi tempi l’impiego di bambini è ancora, se possibile, più subdolo. L’obiettivo è essere sempre più distruttivi e feroci e in una tale strategia bellica i bambini hanno un ruolo privilegiato. I mezzi di comunicazione ci sommergono con cifre impressionanti per numero e diffusione. Si parla di 300.000 bambini che oggi stanno combattendo in 24 conflitti mondiali. Alcuni esempi: 200.000 solo in Somalia, 50.000 nel Nepal, 5.000 in Sri Lanka, 30.000 nel Congo. Sono 300.000 bambini che hanno visto uccidere e hanno ucciso, che hanno patito la fame, hanno sopportato le sofferenze, le percosse e chissà cos’altro. Moltissimi muoiono prima di essere uomini: 2.000.000 sono i bambini che hanno perso la vita negli scontri armati tra il 1990 e il 2007. Evidentemente, questi numeri ancora non bastano se di fronte a queste notizie la maggior parte delle persone rimane comunque spettatore. L’aspetto televisivo del bambino soldato è un argomento delicato e importante. Il rischio è che immagini molto crude e violente (e perfettamente reali) attivino delle strategie di difesa e negazione di fronte a tanta insopportabile sofferenza. Si pone allo stesso modo il rischio inverso: far scivolare il problema nell’inesistenza sociale o nella banalizzazione con informazioni parziali e decontestualizzate. Questi rischi sono ben presenti anche in me mentre mi accingo a scrivere questo articolo.
Come raccontare quindi il dramma e spingere all’azione benefica?

Un proverbio africano dice ”Quando i pesci piangono, nessuno vede le loro lacrime”. Una soluzione potrebbe quindi essere quella di cominciare a vedere e raccontare queste lacrime attraverso le storie di vita di questi bambini. L’approccio psicologico si sforza di avvicinare l’unicità di ogni bambino che soffre per permettergli di uscire dal “dato statistico” della guerra e riacquistare la dignità della propria storia personale. Ogni sofferenza è unica e sconvolgente, ma narrarla significa farla esistere nella mente di un’altra persona. Significa quindi trasformare l’esperienza drammatica in un’esperienza relazionale di racconto (Cyrulnik, 2000).
China Keitetsi è nata in Uganda e a otto anni è finita nell’esercito del generale Museveni. “Mi insegnarono a montare e smontare un Kalashnikov come se fosse un bel gioco, mi dissero che il fucile era la mia nuova madre”. Da quel momento per China è un susseguirsi di violenza e soprusi, assiste a scene di “una crudeltà bestiale” e lei stessa commette “brutalità inaudite solo per compiacere i capi”. Ogni bambino di qualsiasi parte del mondo sente il bisogno di essere importante per l’adulto, di essere considerato, di sentirsi una persona degna di valore. Ogni bambino ha bisogno di avere una guida, una base, un punto di riferimento. Ma se i genitori l’hanno nutrito a bastonate e l’adulto che l’ha raccolto dalla strada insegna e pretende violenza, il bambino agirà in modo violento perché questa è l’unica modalità che conosce.

Molti bambini muoiono senza conoscere altro. China Keitetsi è stata accudita da un funzionario delle Nazioni Unite che si è preso cura di lei e le ha cercato un Paese disposto ad accoglierla come rifugiata. China ha trovato un altro modo di cercare la vicinanza e la considerazione di qualcuno: l’affetto.
Il 2009 sarà l’anniversario dei vent’anni dalla proclamazione dei diritti dei bambini, ma guardando agli eventi di guerra ed alla sorte di molte migliaia di bambini in varie parti del mondo non si può dire che si siano fatti molti progressi. Le guerre continuano. La storia si ripete senza favorire scelte efficaci che escludano i bambini da queste drammatiche esperienze che li vedono in differenti ruoli quali vittime, spettatori, soccorritori o persecutori.
I bambini soldato stanno piangendo.Spetta a noi riconoscere le loro lacrime.

Cristina Castelli
Prof. Ordinario Psicologia dello sviluppo,
Università Cattolica di Milano

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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