Diritti da salvaguardare

Uno degli aspetti più terribili delle guerre odierne è il fenomeno diventato ormai tristemente noto con il nome di “bambini-soldato”. Questo termine non deve essere però inteso come riguardante soltanto i ragazzi che partecipano come combattenti, ma si estende a tutti i minori reclutati o utilizzati da forze o gruppi armati a qualsiasi titolo, come combattenti, messaggeri, spie, portatori, cuochi o per scopi sessuali.

“Ci davano tonnellate di droga tutto il tempo, per farci sentire forti e coraggiosi e per obbedire ai loro ordini, non importava quali fossero. Spesso prendevo oppio e valium. Penso che siano molte le cose che non riesco a ricordare a causa della droga che ci davano. Ero come controllato da demoni. Ma io so che sono quello che ha commesso di tutto e mi sento male quando penso a tutto ciò che ho fatto. Non esiste niente peggio della guerra”. (Henri, Liberia, testimonianza raccolta dall’UNICEF)

Uno degli aspetti più terribili delle guerre odierne è il coinvolgimento di bambini nelle ostilità, un fenomeno diventato ormai tristemente noto con il nome di “bambini-soldato”. Questo termine non deve essere però inteso come riguardante soltanto i ragazzi che partecipano come combattenti in un conflitto, ma si estende a tutti i minori di 18 anni, maschi e femmine, reclutati o utilizzati da forze o gruppi armati a qualsiasi titolo come combattenti, messaggeri, spie, portatori, cuochi o per scopi sessuali.

La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze coinvolte hanno da 15 a 18 anni, ma ci sono reclute anche di 10 anni. Le ragazze costituiscono il 30-40% del totale e oltre a svolgere le stesse mansioni dei loro compagni maschi, sono maggiormente vittime di violenze sessuali. Spesso diventano le “mogli” dei comandanti.
Nonostante sia difficile identificare quanti siano i minori soldato, è certo che si tratta di un fenomeno che coinvolge molte decine di migliaia di ragazzi e ragazze. Il rapporto della Coalizione internazionale Stop all’uso dei bambini soldato del 2004 indicava il numero di 300.000. L’ultimo rapporto del 2008 non fornisce una cifra esatta, ipotizzando una lieve diminuzione rispetto al 2004.

Sempre secondo il rapporto sopraccitato, negli ultimi anni sono 19 i paesi le cui forze armate governative o non governative hanno reclutato e utilizzato attivamente bambini soldato: Afganistan, Burundi, Repubblica Centrale Africana, Ciad, Colombia, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, India, Indonesia, Iraq, Israele e Territori Occupati, Birmania, Nepal, Filippine, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Tailandia e Uganda. In alcuni di questi paesi, in particolare Afganistan, Iraq, Territori occupati palestinesi e Pakistan, i bambini sono utilizzati da gruppi armati anche in attacchi suicidi.

Se invece si considerano i paesi che prevedono il reclutamento dei minori di 18 anni ed il loro utilizzo nelle ostilità nelle diverse funzioni, il numero sale a 86.
Questi numeri mostrano come il fenomeno dei bambini soldato sia divenuto un tratto distintivo delle guerre moderne. Le cause sono da rintracciare innanzitutto nel fatto che è cambiata la natura della guerra: prevalgono le guerre interne ad un paese, in cui i civili rappresentano il 90% delle vittime e che si protraggono per molti anni, creando così la necessità di avere sempre nuovi soldati.

L’utilizzo di armi automatiche e leggere ha reso possibile il coinvolgimento di bambini nemmeno adolescenti. Bambini e ragazzi sono spesso ricercati dai comandanti anche per la loro scarsa percezione del pericolo e per la loro obbedienza.
La mancanza di registrazione delle nascite o di documenti è poi un fattore che rende più facile il reclutamento dei minori anche nei paesi dotati di una legislazione che lo vieti.

Infine, se in molti casi i ragazzi vengono rapiti o costretti ad arruolarsi da eserciti e gruppi armati di opposizione, in altri casi si assiste ad un’adesione “volontaria” dei ragazzi dovuta allo stato di necessità e vulnerabilità in cui si trovano. Nei paesi in guerra molti di loro devono confrontarsi con la povertà, la perdita della famiglia, la destrutturazione della comunità. Molti sono i ragazzi di strada o che vivono in campi per rifugiati. In alcuni casi sono mossi dal desiderio di vendicare le atrocità che hanno visto commettere contro i loro parenti o la loro comunità, mentre in altri, soprattutto bambine e ragazze, fuggono da situazioni di violenza domestica che si ritroveranno poi ad affrontare anche nel contesto bellico.

Le conseguenze sofferte da questi ragazzi sono facilmente immaginabili. Vanno dalle ripercussioni fisiche quali morte, denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell’apparato sessuale, incluso l’AIDS, alle ripercussioni psicologiche per aver subito, visto o commesso atrocità riassunte nella sigla PTSD (post traumatic stress disorder). Una situazione psicologica caratterizzata da senso di panico, incubi, ansia, perdita di autostima che perdurano anche a distanza di anni.
Esistono anche delle conseguenze sociali del fenomeno che rendono spesso molto difficile il reinserimento dei bambini soldato nella comunità di origine. Questi ragazzi vengono spesso percepiti con ostilità dalle comunità di appartenenza poiché ritenuti pericolosi o perché hanno combattuto per la parte nemica.

Le loro stesse famiglie, in molti casi, non sono disposte a riaccoglierli. La situazione è ancora più difficile per le ragazze, che spesso tornano a casa con i propri figli nati dalle relazioni con i comandanti o dalla violenza sessuale subita e vengono rifiutate dalle comunità e dalle famiglie perché giudicate violente, indisciplinate e “disonorate”. Contro queste gravissime violazioni dei diritti dell’infanzia, la comunità internazionale ed il mondo delle organizzazioni non governative si sono mobilitate, cercando da un lato di imporre standard normativi che impediscano il reclutamento di nuovi bambini soldato, dall’altro di costruire programmi di Disarmo, Smobilitazione e Reinserimento (DDR).

A livello di normativa internazionale lo strumento più importante è il Protocollo facoltativo alla Convenzione ONU sui diritti dei bambini, riguardante il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati. Esso innalza a 18 anni l’età minima per l’arruolamento obbligatorio nelle forze armate (che la Convenzione fissava invece a 15 anni) e prevede l’obbligo di accertarsi che l’arruolamento volontario dei minori di 18 anni sia veramente tale.

Il Protocollo concluso nel 2000 è stato ad oggi ratificato da 120 Stati e, pur con i suoi limiti, rappresenta uno strumento fondamentale per promuovere l’eliminazione del coinvolgimento dei minori nei conflitti armati e per controllare l’operato di Stati e gruppi armati. Rispetto alla definizione dell’età per l’arruolamento volontario, due terzi degli Stati ratificanti si sono impegnati a definire l’età minima a 18 anni o superiore.

Anche a livello di giustizia internazionale si cominciano a registrare i primi passi: nel 2005 la Corte penale internazionale ha emesso degli ordini di arresto a carico di membri di gruppi armati nella Repubblica Democratica del Congo e nell’Uganda per aver arruolato e utilizzato minori di 15 anni. Fondamentale è stata poi la sentenza emessa nel 2007 dalla Corte speciale della Sierra Leone a carico di 4 persone, in quanto rappresenta la prima sentenza emessa da una corte internazionale contro il reclutamento e l’utilizzo di bambini in un conflitto.

Importante è stato anche il lavoro svolto dalle Commissioni di Sierra Leone, Timor est e Liberia, mentre, a livello di organismi internazionali, sono da ricordare i meccanismi di monitoraggio creati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e le Linee guida approvate dall’Unione europea.
Molte sono quindi le iniziative prese a livello internazionale, spesso sollecitate anche dalle campagne di sensibilizzazione promosse dalle organizzazioni non governative. Tuttavia, i progressi compiuti negli ultimi anni sono ancora troppo pochi per poter dire che il dramma del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati cominci ad essere sconfitto.

Se, infatti, si registra un lieve calo nel numero dei minori coinvolti e dei paesi che hanno visto l’impiego di bambini soldato (passato da 27 nel 2004 a 17 nel 2007), ciò è dovuto soprattutto alla fine di alcuni conflitti, mentre appare chiaramente che, laddove scoppi una guerra, anche i bambini vengono coinvolti in modo autonomo.

Il miglior modo per salvaguardare i diritti dei bambini è quindi quello di far cessare ogni guerra. Anche in presenza di conflitti armati, comunque, l’arruolamento e l’utilizzo di bambini tra le file di eserciti combattenti e irregolari deve divenire un tabù.

Erika Bernacchi, Ricercatrice Istituto degli Innocenti
Alessandra Maggi, Presidente Istituto degli Innocenti

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi