Il film non fa altro che raccontare una storia il cui protagonista opera una scelta, e si vede costretto, vista la mancanza di una legge adeguata, a compiere un gesto eclatante pur di avere la possibilità di essere ascoltato.
Ho sentito spesso parlare di eutanasia. Il più delle volte, come la maggior parte delle persone, non mi soffermavo più di tanto a seguire l’argomento, forse perché non mi colpiva particolarmente, o forse perché, quando si parla di “certe cose”, è meglio non prendere posizione. Nel 2005 i media diedero spazio al caso di Terry Schiavo e la questione mi fece riflettere. Iniziai ad interessarmi marginalmente finché appresi la notizia che in Belgio, in alcune farmacie, si poteva acquistare un kit per la morte dolce. Mi incuriosii e iniziai a compiere alcune ricerche. Venni a conoscenza del caso di Ramon Sampedro e della sua lotta ed iniziai ad interessarmi sempre più sull’argomento. Nei mesi seguenti, la scelta di Luca Coscioni di rifiutare le cure per non dover dipendere da una macchina ed il clamore suscitato dalla sua decisione mi fecero capire quanto coraggio ci voglia per poter vivere con dignità la propria vita. Iniziai a pensare di fare un film sull’argomento. C’era però un problema: si poteva girare un film che parlasse di eutanasia in Italia? Mi feci questa domanda e dopo qualche momento di riflessione abbandonai la mia idea. Un giorno, però, vidi in tv una persona coraggiosa, il cui nome era Piergiorgio Welby. Vidi la sofferenza nel suo volto e nelle sue parole, ma vidi soprattutto il coraggio di un uomo e delle sue idee. Si batteva con tutte le sue forze per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico in Italia e per il diritto all’eutanasia.
Seguendo la sua vicenda, mi venne l’idea di raccontare una storia che potesse far capire quale sentimento spinga una persona a pensare di rinunciare alla propria vita e quali conflitti interiori lo spingano verso questo gesto.
Iniziai a scrivere la vicenda di ALEX: giovane calciatore di talento, la sua vita veniva sconvolta da un incidente automobilistico che lo costringeva immobile a letto, spezzando tutti i suoi sogni. Giornate passate a guardare il mare dalla finestra della sua stanza, prigioniero del suo corpo. Un giorno Alex prende una decisione: registra la sua voce su un disco e la invia ad una radio spiegando il perché del suo gesto. Ultimata la sceneggiatura del film, vissi una vicenda simile che colpì una persona a me cara. Fu ancora più forte il desiderio di portare avanti questo progetto.
Perché ho scelto di parlare di un tema così importante? Ho scelto di parlare di eutanasia perché credo che un individuo cosciente della propria condizione debba avere il diritto di decidere cosa sia più giusto per sé, indipendentemente dal parere politico o religioso. Non ho la presunzione di affermare che il mio film cambierà qualcosa oppure aprirà il dibattito sull’argomento. Quello che mi auguro è che tutte le persone che lo vedranno capiscano la condizione di chi soffre e chiede che si faccia qualcosa. A prescindere dall’etica, che possiamo mettere da parte, non ho fatto altro che raccontare una storia. Il protagonista opera una scelta e si vede costretto, vista la mancanza di una legge adeguata, a compiere un gesto eclatante pur di avere la possibilità di essere ascoltato. Nella mia opera non ci sono attacchi politici o religiosi. Ci sono, invece, persone favorevoli e contrarie all’eutanasia, tant’è che si dà voce ad entrambi gli aspetti. Realizzando questo film, ho semplicemente espresso il mio punto di vista. Può essere condiviso o no. La realizzazione de “La finestra sul mare” non è stata facile, anzi. Difficilissima soprattutto quando ci siamo resi conto dello scarso interesse delle istituzioni, pubbliche e private, ad aiutarci nella realizzazione di un film che mostrasse una problematica sociale attuale. Negata ogni sorta di richiesta. Ho pensato molte volte di abbandonare, sconfortato anche dalle parole di un noto esponente del nostro cinema che mi disse: “Lascia stare perché non te lo faranno fare mai”. Ma invece di lasciar perdere, ho preferito non mollare e proseguire in quell’ideale in cui credo. Seguendo l’esempio di quelle persone cosi speciali che mi avevano ispirato, aiutato dal fatto che proprio in quei giorni, un’altra persona speciale, Giovanni Nuvoli, stava lottando per il suo diritto alla scelta di porre fine alla sua vita con dignità. E così, senza alcun finanziamento, con il solo sostegno morale dell’Associazione Luca Coscioni che ha patrocinato l’opera, abbiamo iniziato a girare.
Questo film mi ha dato la possibilità di entrare nel profondo dell’animo di chi soffre per colpa di malattie o a causa di incidenti che costringono a vivere una sorta di prigionia. Già… prigionieri. È proprio questa la frase che ho sentito più spesso dalle persone che sono andato a trovare e che vedevo soffrire. Non tanto per la loro condizione, quanto per il fatto che per loro non esiste il diritto a vivere dignitosamente. Nel momento in cui raccontavo loro del mio film, vedevo come la cosa facesse piacere. Mi spingevano ad insistere, a portare a termine il progetto, perché, finalmente, qualcuno cercava di portare all’attenzione di tanti questo problema, con una cosa quasi insignificante. Qualche giorno prima di girare le prime scene, ho voluto io stesso provare a vivere immobile per qualche ora. Giusto per rendermi conto di come può essere la vita quando dipendi completamente dagli altri.
Quando ero immobile in un letto, ho capito davvero cosa si prova quando si è privati anche del più elementare dei gesti, quando si dipende totalmente dagli altri, quando ci si rende conto che la sofferenza è doppia. Perché oltre a soffrire della propria condizione, si soffre anche per la condizione che si fa vivere alle persone care. E allora sono contento di aver lottato per questo film. Di aver usato il cinema per lanciare un messaggio affinché una legge che tratti direttamente dell’eutanasia o del testamento biologico venga approvata al più presto, così da essere liberi di scegliere in tutta coscienza il diritto di opporsi all’accanimento terapeutico. Soprattutto, spero non si parli di questo argomento solo quando vengono portati alle cronache casi come quello di Welby o quello attuale di Eluana Englaro. Proprio a proposito di Eluana Englaro, pochi giorni fa, mi hanno chiesto cosa ne pensassi. Rispetto ai casi di Welby o Nuvoli, affetti da malattia neuro-degenerativa, questo è molto diverso. Eluana è infatti vittima di un incidente stradale e, stando a quanto appreso dai giornali e dalla televisione, non ha bisogno di una macchina per le funzioni vitali, ma utilizza un sondino nasogastrico per l’alimentazione e l’idratazione. Le sue funzioni cerebrali sono praticamente inesistenti e la costringono ad uno stato vegetativo permanente. Il padre Beppino ha affermato più volte che la volontà di Eluana era quella dell’interruzione dell’accanimento terapeutico. Certamente non credo che un genitore voglia uccidere la propria figlia. Penso, soprattutto, che, se si batte così duramente per interrompere l’alimentazione artificiale, allora è bene che si dia ascolto alle sue parole. Le parole di un padre disperato, che chiede soltanto venga esaudito il desiderio di sua figlia.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che la sua condizione è priva di dignità. Di lei rimane un corpo privo della capacità di provare qualsiasi esperienza, totalmente nelle mani del personale che la assiste. Concludo con la speranza che in un futuro prossimo si possa approvare una legge in materia, riguardante la possibilità giuridica di introdurre nel nostro ordinamento l’eutanasia o, quantomeno, il testamento biologico limitato al malato terminale nel pieno delle sue capacità intellettive. Permettetemi di ringraziare le persone che hanno realizzato questo film con me, che hanno lavorato senza percepire denaro, mettendone, a volte, addirittura del proprio. Spinti, appunto, dal desiderio di vedere realizzato qualcosa in cui si crede davvero.
Mauro Cerminara
Regista e autore del film “La finestra sul mare“,
sette premi su otto nomination alla quarta edizione di Corto Maediterraneo