La morte? La più bella cosa che possa capitarci…

Anche quando si parla di morte c’è una semplificazione della realtà che può essere operata attraverso la riduzione a una contrapposizione tra concetto di bene e concetto di male: i giusti e gli ingiusti, i buoni e i cattivi, chi ha ragione e chi non ce l’ha.

“Temere la morte, amici miei, significa soltanto ritenersi saggi senza esserlo: perchè vuol dire pensare di conoscere quello che non conosciamo. A prescindere da quanto ne dicono gli esseri umani, la morte potrebbe essere la più bella cosa che possa capitarci: ma gli uomini la temono come se sapessero benissimo che è invece il peggiore dei mali. E questo cos’è se non la spaventosa ignoranza dalla quale siamo indotti a credere di conoscere un fenomeno di cui non sappiamo nulla?” Chi scrive è Socrate. Sicuramente non sapeva a distanza di secoli come tutti i mezzi di comunicazione avrebbero parlato di vita e di morte, di eutanasia, dolore, gioia, sofferenza o riposo eterno. E così anche la morte, bella o brutta che sia, diventa una delle notizie da “strillare” o da narrare, da esaltare o da sminuire. Bastano pochi minuti o poche righe, interi telegiornali o speciali o pagine e pagine. Spettacolizzare la morte, renderla un fatto eclatante o normale. Entrare nella vita di una persona o nel suo processo di sofferenze e di difficile esistenza. Spiegare perchè è giusto vivere o perchè è possibile morire. È difficilissimo farlo per tante ragioni: deontologiche, credo personale, esigenza del mezzo. E poi, quando giornali, radio, tv, persino internet, non scrivono quello che è utile a vendere o a fare ascolti? Quanta possibilità c’è di analizzare situazioni diverse ma simili che riguardano storie piene di sofferenza e di gioia, di servizio e di ricerca della pace? Il punto su cui vorremmo ragionare è come porgere una notizia mettendo il giornalista che deve darla in un confine preciso tra bene e male.

Anche quando si parla di morte c’è una semplificazione della realtà che può essere operata attraverso la riduzione ad una contrapposizione tra concetto di bene e concetto di male: i giusti e gli ingiusti, i buoni e i cattivi, chi ha ragione e chi non ce l’ha.

Ci piace ricordare, come è stato scritto anche di recente, che l’essere umano cerca di spiegare la dicotomia bene e male su stereotipi che passano da padre in figlio, da una generazione all’altra. E questi stereotipi sono generati fondamentalmente da famiglia, scuola, chiesa e mezzi di comunicazione. Il sociologo Walter Lippmann, nella sua opera Public Opinion, dedica un capitolo intero agli stereotipi ed al fatto che l’uomo ama ridurre la realtà attraverso l’utilizzo di dati preesistenti.

“Finchè non siamo in grado di valutare le differenze di formazione, dobbiamo sospendere il giudizio sulle differenze di natura”.

Ed ancora: “L’opinione di massa, acquistando in questo secolo un potere sempre più alto, si è rivelata come un arbitro pericoloso delle decisioni quando le alternative sono la vita o la morte”.

E così, molto spesso, le notizie ci vengono presentate ed elaborate su una verità che i nostri padri ci hanno insegnato e che a loro volto hanno avuto, magari incompleta, dai loro padri. Il tutto miscelato con le esigenze di vendita e la necessità di accontentare i poteri che hanno deciso qual è la storia da raccontare e come porgerla all’opinione di massa. Che si emoziona senza elaborare, piange o ride su uno stimolo preciso che arriva da un giornale o da una tv. È possibile che questo accada? È buon giornalismo? È l’informazione che ci aspettiamo? È giusto che le notizie di vita o di morte, semplici o complicate, arrivino tutte in maniera simile a noi, che già abbiamo pochissimo tempo per apprenderle ed elaborarle? E poi, come i media ci raccontano la paura di morire e la voglia di vivere, o, viceversa, la voglia di vivere e la paura di morire, può avere elementi di esaltazione o segni di lutto. Chiediamoci se è giusto che questo accada. Non soltanto da lettori o da tele/radioascoltatori. Poniamoci il problema che il nostro diritto ad essere bene informati fa parte del vivere civile. Così come il nostro dovere di elaborare quanto viene scritto o detto. Anche in questo dobbiamo essere cittadini attivi e consapevoli. Come ci spiega un grande Maestro del giornalismo italiano, Piero Ottone, la parola usata può avere una funzione imperativa, ma anche una funzione estetica.

“L’uso della parola nella funzione estetica è la massima aspirazione del giornalista, è l’essenza della sua vita. Nella speranza che egli senta il desiderio di raccontare soltanto cose vere. Se poi, per intensificare l’attenzione altrui, inventa storie fantastiche, è bene che il nostro soggetto rinunci al giornalismo, e diventi romanziere”.

E quando i media devono raccontare la vita, la morte, se sia giusta la morte dolce, servono molti giornalisti e pochi romanzieri. Basta essere d’accordo su questo.

Francesco Pira
Sociologo e giornalista,
Docente di Comunicazione e Relazioni Pubbliche Università degli studi di Udine

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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