Se si riconosce che l’unico criterio per decidere se vivere o morire sia l’auto-determinazione non esisterebbe più nessun limite alla disponibilità del proprio corpo.
La nostra Costituzione all’articolo 32 prevede la libertà di cura, cioè la libertà di scegliere se sottoporsi o no ad una terapia, e a quale trattamento affidarsi. Quest’articolo, fino a poco tempo fa, veniva applicato senza troppi contenziosi, ma ultimamente sulla scena pubblica sono emersi casi che hanno portato alla ribalta il problema dell’eutanasia. Certo, la libertà di cura può includere anche la scelta di non sottoporsi ad alcun trattamento e quindi di morire. Alcune persone lo fanno, senza tanto clamore mediatico: ogni anno, ad esempio, ci sono pazienti che smettono di sottoporsi alla dialisi o ad altre terapie pesanti, e così si avviano alla fase terminale della loro malattia. Ma c’è una differenza molto importante fra il diritto a scegliere una terapia ed il diritto a morire. Il suicidio assistito non è previsto dalla nostra normativa.
La libertà di cura è fondamentale: nessuno deve subire atti sul proprio corpo senza averli consentiti. Altro discorso è invece che lo Stato preveda la morte come un diritto del singolo che si auto-determina. Le due cose devono rimanere distinte. Il parlamento sta lavorando per arrivare a una legge sul testamento biologico, o meglio, sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, per fare in modo che ognuno, quando è ancora in grado di intendere e di volere, possa dichiarare a quale trattamento medico si vuole o non si vuole sottoporre nel caso in cui non sia più capace di esprimere la propria volontà. Questa legge, però, non può sfociare nel riconoscimento del diritto di morire. Se scelgo di non curarmi, posso morire.
Ma configurare il suicidio come un diritto è profondamente diverso. Se lo Stato riconoscesse il diritto a morire o a far morire, questo comporterebbe rischi per la solidarietà sociale e anche per la libertà personale. Se si riconosce che l’unico criterio per decidere se vivere o morire sia l’auto-determinazione, non solo diverrebbe possibile il suicidio assistito, ma si riconoscerebbe anche che non esiste limite, nessun limite, alla disponibilità del proprio corpo. Attualmente, l’istigazione al suicidio o la vendita di pezzi del proprio corpo sono reati: non si ha una piena disponibilità del proprio corpo, ci sono dei limiti, e questi limiti sono stati messi proprio per tutelare le persone più fragili. Riconoscere il suicidio assistito equivarrebbe a negare quegli elementi di solidarietà fondamentali in una società, per cui, ad esempio, una persona che si sta suicidando potrebbe essere aiutata nel suo intento. Se vede una persona che si sta suicidando, ciascuno di noi ha l’immediato riflesso di trattenerla: in caso contrario, si creerebbe una terribile situazione di indifferenza sociale.
Noi siamo liberi, siamo anche liberi di farci del male e di suicidarci, ma questa libertà non può diventare un diritto. Non possiamo chiedere che qualcun altro ci faccia del male o ci faccia morire. Non solo gli altri non devono poterci fare del male, ma devono, se appena possono, cercare di trattenerci dal farlo. Se il criterio dell’auto-determinazione viene riconosciuto senza limiti ragionevoli, c’è il rischio di ledere altri diritti fondamentali dell’uomo. C’è il rischio paradossale che il riconoscimento del principio dell’auto-determinazione finisca per rovesciarsi nel proprio opposto, mettendo la vita e la morte di ognuno in mano a qualcun altro. A proposito del caso Englaro, per esempio, si dice che far morire Eluana vuol dire attuare la sue volontà. Eluana, però, non ha mai lasciato nulla di scritto, e la sua volontà è stata ricostruita dalla magistratura sulla base di testimonianze estremamente fragili.
La ragazza, inoltre, non ha mai avuto un colloquio con un medico: un testamento biologico, invece, si dovrebbe fare dopo un colloquio dettagliato alla fine del quale si firma un documento di consenso informato. Insomma, della volontà di Eluana non possiamo essere assolutamente certi: chi decide di lei sono altri, e cioè i giudici, la curatrice, il padre. La sentenza che autorizza la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione di Eluana, poi, si basa sull’irreversibilità dello stato vegetativo, ma secondo la comunità scientifica ormai da molti anni non si può più parlare di irreversibilità degli stati vegetativi, perchè in merito non si ha nessuna certezza: in questi casi, cioè, non si può dire se e quando vi possa essere un risveglio di coscienza. A me sembra che dietro questa sbandierata “volontà” di Eluana ci sia in realtà un giudizio sulla qualità della vita, un giudizio sul fatto che la vita di una persona che è quasi completamente affidata alle mani degli altri è una vita che vale meno.
Eluana deglutisce da sola, ma non può compiere i gesti che le permetterebbero di sopravvivere. Non può provvedere alla propria alimentazione, alla propria idratazione e non può coprirsi se ha freddo, ma questi gesti non rappresentano terapie: rientrano nel concetto di assistenza. Anche i bambini, le persone molto anziane o i malati mentali possono non essere autosufficienti. Ma possiamo forse dire che chi è completamente dipendente dagli altri ha una vita di serie B? Temo che dietro il principio dell’auto-determinazione possano alla fine nascondersi decisioni prese da qualcun altro: dalla magistratura, come nel caso di Eluana, o dai medici. Il valore che conta davvero è quello della solidarietà, da esercitarsi soprattutto verso le persone più bisognose. È importante che dietro i proclami di auto-determinazione non vi sia la convinzione strisciante che certe vite siano meno degne di essere vissute, o che chi non ce la fa da solo possa essere lasciato indietro.
Eugenia Roccella
Sottosegretario di Stato per il lavoro, la salute e le politiche sociali