Una mobilitazione difficilmente riuscirebbe a protrarsi per quasi un mese senza dare segnali di cedimento se i motivi di disagio non fossero profondi. La legge 133 contiene due punti cruciali per il mondo dell’università. L’articolo 66 stabilisce un taglio di 1,5 miliardi di euro del Fondo di finanziamento ordinario destinato alle università, per il prossimo quinquennio mentre, sempre nello stesso articolo, si dispone un pesante blocco del turnover.
Se si dovesse prestare attenzione alle sole dichiarazioni del ministro Gelmini circa i provvedimenti presi in materia di istruzione col Dl137 e con la Legge 133/08 (ex Dl 112), non resterebbe che pensare che i manifestanti scesi in piazza in queste settimane, che hanno occupato scuole e università, stiano facendo tanto rumore per nulla. Eppure, una mobilitazione difficilmente riuscirebbe a protrarsi per quasi un mese, senza dare peraltro ancora segnali di cedimento, se i motivi di disagio delle tante e dei tanti che la stanno animando non fossero profondi.
La legge 133 contiene due punti cruciali per il mondo dell’università. L’articolo 66 stabilisce, per il prossimo quinquennio, un taglio di 1,5 miliardi di euro dell’Ffo (il Fondo di finanziamento ordinario, il finanziamento ministeriale, cioè, destinato alle università), mentre, sempre nello stesso articolo, si dispone un pesante blocco del turnover: il personale assunto sarà pari al solo 20% dei pensionamenti nel biennio 2009-2011: ogni 10 pensionamenti, solo 2 assunzioni. L’articolo 16, d’altro canto, sconfessa platealmente le affermazioni del ministro quando dice che, in riferimento alla 133, non si può parlare di una vera e propria riforma del mondo universitario.
Quale altro termine, se non quello di riforma, si deve utilizzare a proposito della possibilità che l’articolo 16 dà alle università di trasformarsi in fondazioni private, cioè in veri e propri enti privati, dotati di una propria organizzazione e di propri organi di governo? Forse uno più appropriato c’è, ed è quello di “controriforma”: come si potrebbe, altrimenti, definire il fatto che una trasformazione radicale del sistema universitario italiano avviene per decreto, sulla scorta, per di più, di un testo di appena seicento parole?
Le implicazioni di tali disposizioni appaiono evidenti a tutti: l’aziendalizzazione del sapere, iniziata negli anni ’90 con l’introduzione dell’Autonomia di Ruberti, subisce una brusca accelerata. La trasformazione degli atenei in università fondazione ha senso ed è allettante se essa realizza la privatizzazione del sapere e della ricerca. I privati si lasceranno attrarre solo se potranno godere di un ritorno economico. Se potranno, cioè, controllare l’insegnamento e la ricerca piegandoli alla realizzazione dei propri fini. E non disponendo, in Italia, di finanziatori privati delle dimensioni di quelli statunitensi, fatte salve tre o quattro imprese nazionali, il risultato di quest’operazione è sicuro: solo poche università, se inserite in tessuti territoriali ricchi, potranno trarre benefici finanziari dalla privatizzazione.
Tagli pesanti e sovvertimento della natura pubblica dell’università procedono inevitabilmente di pari passo in un provvedimento il cui titolo è già di per sé esaustivo delle reali intenzioni del governo: “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Con uno strumento di politica economica, di risanamento finanziario, dunque, si vuole spingere un’università statale, sempre più priva di finanziamenti pubblici, nelle braccia dei finanziatori privati.
Il nuovo decreto, poi, presentato da Gelmini al Consiglio dei Ministri del 6 novembre, non incide sui punti di sofferenza prodotti dai provvedimenti del Governo fin qui descritti: non modifica, infatti, nella sostanza, la Legge 133/08, né per quanto riguarda i tagli ai finanziamenti, né sul tema della trasformazione delle Università in Fondazioni. Così come non c’è nessun passo indietro sui tagli che, restando pesanti, annulleranno anche il parziale allentamento del turnover della docenza previsto dal nuovo decreto, che dovrebbe passare dal 20 al 50%.
Dopo arroganti proclami quali “andremo avanti comunque”, “la maggioranza del paese è con noi”, il governo ha dovuto iniziare a fare i conti con la realtà. L’esecutivo comincia a scricchiolare nei sondaggi ed evidentemente risente del peso di una contestazione che sembra, per ora, non trovare soluzione di continuità. Anziché spegnersi a seguito delle minacce del governo di procedere allo sgombero forzato di scuole e università occupate e bloccarsi o degenerare dopo le infiltrazioni squadriste dei cortei, com’è accaduto a Piazza Navona a Roma, la protesta non solo continua a estendersi in scuole e università, ma contagia e si lascia contagiare da altre realtà sociali che hanno scioperato o che scenderanno in piazza nel prossimo periodo contro le politiche del governo.
Si tengono in questi giorni gli scioperi regionali del Pubblico impiego (colpito anch’esso dalla 133), mentre il 12 dicembre scenderanno a manifestare a Roma le tute blu della Fiom Cgil in occasione dello sciopero nazionale proclamato dalla categoria nei giorni scorsi. Prima una data fondamentale: il 14 novembre ci sarà lo sciopero nazionale dell’Università. Contro lo smantellamento sistematico di tutte le conquiste ottenute dalle lotte studentesche e operaie degli anni Sessanta e Settanta non c’è referendum o dialogo che tenga. È sotto il peso di cortei di massa, come quelli per la scuola tenutisi a Roma, che il governo ha iniziato a piegarsi, e con i quali dovremo, nel prossimo periodo, travolgerlo.
Francesca Scarpato,
Collettivo universitario la Scintilla, Trieste