Da un lato bisogna ridurre l’uso dei combustibili fossili e identificare nuove fonti in grado di garantire un equilibrio tra efficienza, costo sociale e d economico, sostenibilità ambientale. Dall’altro è importante intervenire a livello culturale affinché la società comprenda ed accetti le soluzioni che la scienza propone.
L’“emergenza energia”, che il mondo si trova ad affrontare in questo inizio di millennio, sottende una duplice sfida. La prima è quella di identificare fonti di energia che possano far fronte al crescente fabbisogno mondiale e, al tempo stesso, raggiungano il delicato equilibrio fra efficienza, costo economico, costo sociale, sostenibilità per l’ambiente, ricadute etiche e politiche. La seconda sfida è quella di intervenire a livello culturale per far capire e accettare le soluzioni energetiche che la scienza propone, ad una società confusa, poco informata, impaurita e percorsa da movimenti antiscientifici.
Circa il primo aspetto, il punto di partenza è chiaro e ormai fuori discussione: è necessario ridurre l’uso dei combustibili fossili, in primis il petrolio e i suoi derivati, per evitare il degrado accelerato del pianeta. La scienza ci ha dimostrato in modo incontrovertibile che la combustione degli idrocarburi causa gravi malattie ed è il principale responsabile dell’inquinamento del pianeta, oltre che del progressivo alterarsi del suo equilibrio climatico. Non abbiamo però, al momento, una fonte alternativa immediatamente disponibile che, da sola, possa far fronte ad un bisogno energetico globale che cresce a ritmi rapidissimi e in modo esponenziale.
La via d’uscita più razionale pare dunque quella di ricorrere ad un “mix” di tutte le altre fonti non inquinanti, senza dare a nessuna l’esclusiva, perché ognuna di esse comporta comunque squilibri sociali e ambientali. Per orientarci nelle scelte, io credo che dobbiamo guardare prima di tutto la natura e da qui ripartire, studiando come sfruttare al meglio le fonti di energia che essa utilizza: l’atomo, il sole, l’acqua, il vento. È ovvio che la ricerca scientifica deve anche saper fare i conti con l’intervento dell’uomo sulla natura: la civiltà postindustriale, il consumismo, le concentrazioni urbane. Tuttavia, molto ancora si può imparare dalla realtà biologica, dove le fonti di energia si alimentano e si completano l’una con l’altra. Così, l’uomo dovrebbe imparare a diversificare per distribuire il rischio. La dipendenza dal petrolio ci dovrebbe aver insegnato che il possesso di fonti di energia si trasforma in possesso di potere economico che diventa anche potere politico, a sua volta causa dei grandi conflitti mondiali.
Credo che un obiettivo raggiungibile nei prossimi anni sia quello di sostituire il 50% dei combustibili fossili con percentuali di produzione distribuite uniformemente fra le diverse fonti rinnovabili (intorno al 10-15% ciascuna): l’energia nucleare, che ha tecnicamente le maggiori potenzialità ma che, al di là delle ingiustificate paure per le radiazioni, richiede impianti e tecnologie complesse, con soluzioni in tempi non brevi; l’energia solare, che va spinta in modo deciso perché è pulita e può avere un maggiore e più facile utilizzo; l’energia eolica, che è una prospettiva affascinante, ma non può essere troppo sfruttata per non rovinare il paesaggio, soprattutto nel nostro Paese; l’energia idroelettrica, che è già sfruttata al massimo del suo potenziale, o quasi; le biomasse, molto promettenti, ma da utilizzare con raziocinio per non capovolgere l’utilizzo dei terreni e la destinazione delle coltivazioni; l’energia geotermica, che è una fonte inesauribile, ma la cui estrazione è ancora molto costosa.
Le condizioni per mettere in atto questo programma di “uso integrato” delle fonti non inquinanti ci introduce al secondo aspetto della sfida energetica: la sfida culturale. Nulla si può fare per ridurre la dipendenza dal petrolio (e salvare il pianeta) a meno che scienza e società si alleino. E per allearsi devono essere libere dai condizionamenti che derivano dall’ignoranza, dai fondamentalismi ideologici e dagli interessi. Quindi, prima di tutto, con un’azione di informazione sistematica e capillare, bisogna spazzare via l’atteggiamento antiscientifico serpeggiante, a cui ho accennato prima, che induce la gente a mostrarsi perplessa, se non ostile, nei confronti di ogni progresso della scienza, come se essa perseguisse finalità che non sono le stesse di ognuno di noi, come individui e come parte di una comunità: la salute, il benessere, un ambiente bello e piacevole in cui vivere, un futuro migliore per i nostri figli.
Questo abito mentale precostituito crea una serie di tabù e pregiudizi che impediscono la partecipazione della gente a una discussione lucida e razionale su dove e come investire le risorse per il progresso. Il secondo freno da cui liberarsi sono i fondamentalismi legati alle ideologie, che soffocano la libertà del pensiero razionale nell’assoluta rigidità dei dogmi, contribuendo anch’essi ad affossare il dibattito sul futuro. Inoltre, su questo atteggiamento “di chiusura” hanno facile presa gli interessi, il terzo ostacolo alla scienza: quelli economici, quelli partitici e tutti i particolarismi e le politiche locali tese esclusivamente a guadagnare il consenso della popolazione, soffocando le spinte alla ricerca e all’innovazione. Dobbiamo allora ritrovare e diffondere la fiducia nella scienza, che, per definizione, è invece universale, obiettiva e orientata al bene futuro.
Umberto Veronesi
Oncologo, senatore, già ministro della Sanità