Gli atleti che si preparano con sacrificio, investendo non solo le proprie giornate ma la propria mente negli allenamenti, fanno notizia solo in pochi casi e per poco tempo. Abbiamo campioni italiani di cui a stento ricordiamo il nome. Al contrario, invece, domina il discorso sul doping
Fa parte della retorica antica, ripetuta per secoli, l’idea che un corpo sano aiuta tanto il pensiero quanto l’anima. L’attività fisica, lo sport, è da sempre un buon modo per conservare e rendere florida la forma fisica. C’è qualche cosa di storto, quindi, nel fatto che spesso discutiamo di sport più a proposito di sostanze che danneggiano il corpo che di sconfitte onorevoli e meritate vittorie.
Mi ha stupito sperimentare, sulla pelle dei figli, che nelle scuole italiane sono rimaste le ore d’educazione fisica, ma è sparita l’educazione fisica. Certo, lo so, non si deve generalizzare e se scrivessi un saggio sul tema dovrei andare a documentarmi in giro per l’Italia, ma, insomma, fra scuole e campi estivi una certa esperienza ce la siamo fatta, ed abbiamo visto che la ginnastica è sempre più una sconosciuta, mentre prende piede la pratica di questo o quello sport a squadre. Che sono importanti, ci mancherebbe, ma sono pur sempre cosa diversa dal gareggiare a chi corre più velocemente o salta più in alto o lancia più lontano il peso. Mettendosi in gioco personalmente e personalmente dovendo fare i conti con la sconfitta. Nulla aiuta più a crescere delle sconfitte, premessa indispensabile per responsabili, ed auspicabili, vittorie.
Quando i nostri ragazzi chiedono di andare a studiare negli Stati Uniti, per esempio, le loro domande sono più favorevolmente accolte se raccontano di praticare uno sport con impegno e costanza. Da noi la cosa è giudicata irrilevante. Nel mondo del lavoro si dice di voler premiare il “gioco di squadra”, ma sovente lo si interpreta nel turpe modo di saper limitare le proprie aspirazioni e potenzialità personali.
L’esempio che viene dal mondo adulto, poi, non sempre è confortante. Gli atleti che si preparano con sacrificio, investendo non solo le proprie giornate, ma la propria mente negli allenamenti, fanno notizia solo in pochi casi e per poco tempo. Abbiamo campioni italiani di cui a stento ricordiamo il nome. Al contrario, invece, domina il discorso sul doping, sulle prestazioni drogate che aumentano i casi di vittoria e ne declassano il valore. Non mi scandalizza affatto che il successo possa essere misurato in denaro, che è un buon segno di crescita, se meritato, ma non è normale che l’agonismo si pieghi allo sfruttamento commerciale esasperato. Se il rapporto fra il gareggiare e l’apparire fosse corretto l’atleta che vince corrompendo il proprio corpo (o accettando che lo si corrompa) avrebbe più di una ragione per vergognarsene. Capita, invece, che si rammarichi d’essere stato scoperto, o si arrabbi per esserlo stato senza che altri, o tutti gli altri, lo siano. Non c’è, in questo, una gran differenza etica fra chi si droga per vincere e chi accetta di superare un test universitario conoscendo in anticipo le risposte. In tutti e due i casi la vittoria è considerata strumentale al benessere economico, e non alla propria soddisfazione morale e crescita individuale.
Essendomi capitato di seguire squadre di giovani giocatori ho trovato amaro lo spettacolo offerto da molti genitori. Il tifo è una bella cosa, ed anche il sostegno vociante alla propria squadra ed ai propri ragazzi è lecito. Ma le accuse lanciate agli arbitri, i fischi od il rumoreggiare sul gioco degli avversari, l’eccesso di esultanza per prove che certo non troveranno spazio nella storia dello sport, trovo che sia un modo alterato, direi drogato, d’interpretare l’educante salubrità di una gara. Per non dire dei continui interventi sugli allenatori (denominati quasi sempre in lingua inglese) affinché non sia tolto spazio o ruolo alla propria stella casalinga. Tutto questo induce a non credere che sia migliore chi corre più velocemente, e diseduca i più giovani dall’impegnarsi per batterlo nell’unico modo razionale: correndo ancora più velocemente.
Quando questo è l’umore che attraversa molti campi periferici e molte realtà che è giusto considerare amatoriali, non è difficile immaginare cosa succede quando si sale il gradino che porta ad un impegno più organizzato, su su ascendendo fino al professionismo. I ragazzi, in questo mondo, diventano oggetti al servizio delle ambizioni (talora delle frustrazioni) adulte. In altre parole: non vedo una relazione fra il problema della droga e quello del doping, se non nel declassamento concettuale del corpo. Chi si droga non ha certo ambizioni agonistiche e la fuga dalla realtà non è paragonabile al tentativo truccato di vittoria. Mentre la droga ha radici diffuse in molti atteggiamenti giovanili, e lì va combattuta, il doping è più un riflesso malato del mondo adulto. Non faccio classifiche di pericolosità (lo sono entrambe), ma è necessario distinguere se si vuole intervenire in modo efficace e non inutilmente declamatorio.
Davide Giacalone
Direttore dei periodici
“La Ragione” e “Smoking”,
già capo della segreteria del presidente del Consiglio dei Ministri,
già consigliere del Ministro delle Poste
e delle Telecomunicazioni
www.davidegiacalone.it