Anche se ad alcuni la sperimentazione sui bambini può sembrare assurda e aberrante test e ricerche pediatriche effettuate in modo serio, controllato e in considerazione di precisi protocolli potrebbero consentirci di garantire ai nostri bambini la somministrazione di farmaci nel rispetto e fondamentale tutela del loro organismo e della loro crescita
Quello dell’assunzione di farmaci è un problema davvero spinoso. Che diventa ancor più complicato e difficile da affrontare quando i medicinali devono essere somministrati a pazienti minorenni. Per tanti motivi. Innanzitutto, sul piano squisitamente scientifico, spesso – troppo, forse – si somministrano ai bambini farmaci che non sono stati sperimentati su soggetti così piccoli e per i quali è, conseguentemente, difficile valutare l’impatto su un fisico in fase di sviluppo ed evoluzione. Quante volte, infatti, ci è capitato di leggere sui foglietti illustrativi – i cosiddetti “bugiardini”- l’avvertenza “non somministrare al di sotto dei 12 anni”? Questo perché, “al di sotto” di quell’età, la sperimentazione non viene eseguita e i farmaci pediatrici testati, e dei quali si conoscono controindicazioni e possibili conseguenze sui bambini, sono davvero un numero irrisorio rispetto a quelli messi in commercio e, comunque sia, utilizzati per la loro cura. E, ovviamente, i medici non possono far altro che limitarsi a diminuirne dosaggio e posologia in relazione all’età, al peso e alla gravità del problema dei piccoli pazienti. Ma questa non è, forse, anche una sorta di sperimentazione allargata, generica e ingovernabile? Non varrebbe allora la pena di fare test e ricerche pediatriche in modo serio, controllato e nel rispetto di precisi protocolli? In fondo, così facendo, anche se ad alcuni la sperimentazione sui bambini può sembrare assurda e aberrante, potremmo in futuro garantire ai nostri bambini la somministrazione di farmaci non solo con maggiore consapevolezza, ma anche con maggiore rispetto e fondamentale tutela del loro organismo e della loro crescita. Senza, poi, contare, che quelli della ricerca e dell’industria farmaceutica sono settori così altamente coinvolti da svariati interessi – soprattutto di natura economica – da far sorgere il dubbio che, a volte, vi sia un po’ di leggerezza nell’introduzione sul mercato di determinati medicinali (è quello che, per esempio, è recentemente accaduto con l’introduzione del farmaco pediatrico Ritalin in Italia, alla quale sono seguite numerose, profonde, e probabilmente fondate, polemiche).
Ma, ovviamente, non spetta a me, se non nella mia qualità di privata cittadina e di nonna, entrare nel merito di queste questioni. Quello che più interessa la mia professione è un altro grave problema: quello che deriva dal fatto che la responsabilità della somministrazione di farmaci ricade su soggetti diversi da quelli che li devono assumere, in quanto non ancora in grado (a volte, nel caso di adolescenti, solo secondo la legge) di valutare ragioni, opportunità ed effetti collaterali dell’assunzione stessa. La situazione normale (o meglio, auspicabile) prevede che i genitori del minore siano consapevoli e, soprattutto, d’accordo sul tipo di cura cui sottoporre il figlio. Avendone valutato insieme, e con il necessario aiuto dei medici, l’opportunità, l’utilità e ogni possibile conseguenza, intesa in termini di beneficio o di controindicazione. Può, però, accadere che, al contrario, i genitori, per le più disparate ragioni, non si trovino affatto d’accordo sulle terapie suggerite per la cura dei loro bambini. La legge, sul punto, sembra abbastanza chiara: la potestà genitoriale, che si esplica anche nella cura dei figli minori, viene esercitata di comune accordo da entrambi i genitori. L’articolo 316 del codice civile precisa, poi, che “In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza particolari formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei”. E’ giusto sapere che questa norma prevede anche – ingiustamente, anacronisticamente e anticostituzionalmente – che quando sussiste “un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti e indifferibili”.Ma cosa succede quando i genitori stanno affrontando una crisi o, ancor peggio, un conflitto familiare? Con l’entrata in vigore della nuova legge sull’affido condiviso (L. n. 54/06) il legislatore ha previsto che, di regola, l’esercizio della potestà spetta a entrambi i genitori separati o divorziati (proprio come se andassero d’amore e d’accordo) precisando, all’art. 155 del codice civile, che, in ogni caso, “le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo”.
L’immediata conseguenza di questa previsione, sta nel fatto che ciascun genitore ha il potere di interferire su tutte queste scelte, assunte dall’altro nell’interesse dei propri figli. In alcuni casi, questo potere rappresenta, per il genitore che viene deliberatamente e immotivatamente escluso dall’altro dalla vita dei propri bambini, lo strumento per esercitare in modo pieno e concreto il proprio ruolo genitoriale. In altri casi, però, diventa, per il genitore che non ha a cuore la salute del proprio figlio, ma solo la battaglia legale con l’ex coniuge, un’arma (scorretta e crudele) per creare continui ostacoli, alimentare tensioni e aumentare i motivi di conflitto. Anche in questo caso, la soluzione per risolvere i contrasti genitoriali relativi alle scelte di particolare importanza nell’interesse dei figli, è il ricorso al giudice. Con tutte le lungaggini e le incertezze conseguenti. E’, comunque, bene sapere che il legislatore ha previsto che solo per le questioni di ordinaria amministrazione – tra cui, tuttavia, non rientra la salute – l’esercizio (non la titolarità) della potestà possa essere attribuito a uno solo dei genitori, che ne riceve piena delega, quando l’altro, per incapacità, lontananza o altro impedimento, non è in grado di esercitarla in modo tutelante per il figlio. Il genitore escluso dalla potestà può e deve, comunque, esercitare una funzione di controllo sull’operato dell’altro, potendo anche ricorrere al giudice quando ritenga che le decisioni assunte non rispettino le reali esigenze del minore. In conclusione, pur se la legge sembra abbastanza chiara e finalizzata a tutelare l’interesse (anche di cura e salute) dei minori, non è certamente sufficiente a mettere i bambini al riparo dalla pericolosità delle prese di posizione di certi genitori, pronti a sfruttare anche queste delicate situazioni per alimentare il conflitto con l’ex coniuge, omettendo di considerare le reali e concrete esigenze di cura dei loro bambini. Ma ancora non esiste una legge che sappia imporre il buon senso. E neppure il farmaco sicuro.
Anna Maria Bernardini de Pace
Avvocato divorzista, giornalista e scrittrice