Nel 70% dei casi l’anoressia è a rischio di ricomparsa per cui occorre ottimizzare le cure soprattutto nella fase del mantenimento. La prima adolescenza è, per le ragazze, l’età più a rischio
L’anoressia nervosa, tale è l’etichetta diagnostica di questo disturbo nella nosografia psichiatrica, è un problema per il quale come ricercatori siamo impegnati verso la comprensione dei fattori causali biologici e non, e come clinici sul fronte della ottimizzazione delle cure, non solo quelle della fase acuta, ma soprattutto quelle di mantenimento, dal momento che si tratta di una malattia che almeno in una percentuale rilevante dei casi, circa il 70%, ha un forte rischio di ricomparsa dei sintomi dopo l’esordio e il primo episodio, con la possibilità negli anni successivi di cambiamenti del profilo clinico che possono in modo significativo aggravare il decorso e le complicanze fisiche. La prima adolescenza è l’età in cui il rischio di ammalare per e giovani è maggiore. La maggior incidenza di esordi del disturbo si concentra nella fascia di età compresa tra i 13-18 anni, anche se va ricordato che non sono più una rarità alcuni casi di esordi ancora più precoci, prima quindi del menarca.
Neppure sono una rarità i casi di anoressici al maschile, nonostante il disturbo si qualifichi ancora nell’immaginario di tutti come una “prerogativa”, pur triste, al femminile. è evidente che, proprio perché colpisce gli adolescenti, la malattia investe l’intera famiglia, soprattutto i genitori nel loro ruolo di responsabili e garanti della salute psicofisica dei figli. Spetta ai genitori avviare la ricerca di un percorso diagnostico-terapeutico, spesso estremamente faticoso, che deve essere tempestivamente intrapreso: dal riconoscimento possibilmente precoce dei sintomi, fino all’attuazione di una cura la cui necessità viene molto spesso negata, osteggiata e procrastinata dalla giovane paziente. La famiglia d’altra parte non è soltanto il “luogo” all’interno del quale si giocano intrecciandosi elementi di conflittualità generazionale, oltre che criticità educative che hanno una loro estensione nella scuola, luogo privilegiato di crescita dell’adolescente nella dimensione della socialità e della comunicazione.
La famiglia è anche espressione di un elemento della eziologia della malattia e l’avanzamento delle conoscenze scientifiche attuali ci consente oggi di affermare che i fattori genetici di stampo biologico hanno un ruolo significativo nella predisposizione individuale ad ammalare. Su questa vulnerabilità di tipo genetico si iscrive successivamente poi il ruolo di fattori ambientali la cui presenza e molteplicità contribuisce a “precipitare” il quadro clinico. Non è un caso forse che, a livello mediatico, si tenda a parlare di questi ultimi molto più diffusamente ed estesamente di quanto non vengano diffusi i risultati di studi di biologia molecolare e di imaging cerebrale funzionale che propongono modelli di ereditabilità e identificano aree e circuiti cerebrali malfunzionanti che non sono riconducibili al solo stato di inanizione e deperimento generalizzato dovuto al rifiuto del cibo a al dimagramento conseguente. Questi stessi studi sulla familiarità del disturbo del comportamento alimentare ci indicano che si tratta di una predisposizione non limitata a questo disturbo ma si allarga al Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) che spesso nella paziente coesiste all’anoressia ed è presente tra i membri della sua famiglia in modo significativamente maggiore che nella popolazione generale. Ciò rende ragione delle osservazioni risalenti ai primi anni ‘60 di una lunga serie di elementi di comunanza nei profili personologici e nella qualità delle relazioni interpersonali che caratterizzano le famiglie di queste pazienti.
Quello che decenni or sono veniva già descritto e costituiva il substrato per un approccio terapeutico psicologico che coinvolgeva l’intera famiglia, ha oggi riscontri in batterie testali complesse che misurano profili neuropsicologici individuali e rappresentano la base per la qualità delle interazioni, dei comportamenti e delle strategie decisionali vigenti all’interno delle famiglie.
In particolare, parlando di profili neuropsicologici che caratterizzano le pazienti e i loro familiari di primo grado (genitori e fratelli), l’attenzione si focalizza sulle cosiddette funzioni esecutive, ovvero quelle facoltà mentali alle quali è deputata la pianificazione strategica dei comportamenti e delle scelte, la valutazione sotto il profilo emozionale delle motivazioni che costituiscono la base di comportamenti di approccio e ricerca piuttosto che di evitamento.
Si comprende bene che la malattia implica una serie di comportamenti intenzionali e volontari, pur riconosciuti dalle pazienti stesse come irrazionali, sostenuti dalla forte valenza emotiva negativa attribuita al cibo, inteso come minaccia al mantenimento di un certo ideale patologico di immagine corporea.
Rispetto a tali comportamenti a volte anche aggressivi, dettati dalla patologia, la famiglia fatica ad assumere un atteggiamento appropriato, specie quando la giovanissima età della paziente suggerisce preferibilmente toni autoritari e giudicanti piuttosto che non un rapporto empatico nei confronti della figlia malata. A maggior ragione quando uno dei genitori presenta tratti di personalità tipo rigidità, freddezza e distacco emotivo e perfezionismo.
Questo è il quadro attuale delle conoscenze all’interno del quale leggere il valore di iniziative anche lodevoli sul piano sociale (tipo la regolamentazione delle caratteristiche di BMI minimo per accedere alle passerelle delle sfilate di moda) volte a ridimensionare la tendenza ad attribuire un valore positivo alla magrezza estrema come espressione del controllo assoluto sugli istinti “bassi” come la fame.
Ma l’ipercontrollo patologico, in realtà, è semplicemente il frutto di un’attività di inibizione esagerata di alcuni componenti di circuiti cerebrali deputati all’attivazione di comportamenti ”appetitivi” appropriati, per la regolazione e il mantenimento dell’omeostasi energetica dell’individuo.
Il futuro dei programmi terapeutici, soprattutto quelli ad orientamento non farmacologico si giocherà sulla possibilità di applicare programmi di neuro-riabilitazione cognitiva sulle funzioni mentali defettuali riscontrate in queste pazienti, in analogia con quanto già viene fatto per altre patologie neuropsichiatriche.
Laura Bellodi
Professore straordinario di psichiatria presso l’Università Vita – Salute San Raffaele di Milano. Direttore del Centro per i disturbi alimentari e direttore del Centro per i disturbi d’ansia e del Centro per i disturbi ossessivo compulsivi presso l’Istituto Scientifico San Raffaele