Largo ai lavoratori della nuova Europa

Tre i messaggi dati recentemente dal Governo su un tema sempre agli onori delle cronache. Il primo, rivolto agli italiani, dice basta alle ipocrisie. Il secondo è destinato alla manodopera qualificata dei nuovi stati dell’ Ue e il terzo abolisce le discriminazioni nell’accesso alle prestazioni dello stato sociale.

  Con le decisioni prese dall’ultimo Consiglio dei ministri in tema di immigrazione, il Governo ha voluto dare tre messaggi importanti. Il primo è rivolto agli italiani: è un impegno a farla finita con le ipocrisie, con la pretesa di far finta che non ci siano già in Italia migliaia di lavoratori immigrati, costretti da quote anacronistiche ad avere un lavoro irregolare, non potendo dunque versare i contributi che finanziano le pensioni degli italiani. Il secondo messaggio è indirizzato ai lavoratori dei nuovi Stati membri: invita la manodopera qualificata, che sta decidendo dove cercare un lavoro nell’Unione, a venire da noi. Il terzo è rivolto a tutti gli immigrati che sono già in Italia ed è un messaggio di integrazione: non saranno più discriminati nell’accesso alle prestazioni dello stato sociale. Era avvenuto nel caso del bonus bebè, uno strumento che avrebbe peraltro potuto avere qualche efficacia nello stimolare la natalità, solo se esteso fin da subito agli immigrati. Occorrerà ora andare al di là di questi, pur importanti e condivisibili, segnali e rivedere in modo organico la normativa, possibilmente cercando di guidare un processo di armonizzazione delle politiche dell’immigrazione a livello europeo.

Tre segnali importanti

Le quote di ingressi, fissate molto al di sotto della domanda delle imprese, servono solo a incoraggiare immigrazione poco qualificata e clandestina. Se c’è lavoro, gli immigrati vengono comunque. Soprattutto, i lavoratori meno qualificati sono disposti a lavorare a qualunque condizione, anche in nero. E lavorano. Quasi tutti e molto più degli italiani.
Un dato reso pubblico nelle scorse settimane dall’Istat e sorprendentemente passato inosservato lo testimonia in modo molto chiaro. Per la prima volta ci è stato comunicato il tasso di occupazione fra gli immigrati, vale a dire la quota di immigrati fra i 15 e i 64 anni di età che ha un lavoro. Abbiamo così imparato che quasi nove immigrati su dieci in età lavorativa hanno un impiego, contro sette su dieci fra gli italiani. E anche le donne immigrate lavorano più delle italiane: una su due, cinque su cento in più che tra le nostre connazionali.
La quota di 170mila lavoratori introdotta dal precedente Governo per i lavoratori dei nuovi Stati membri era molto al di sopra dei flussi registrati in provenienza da questi paesi negli ultimi tre anni. Serviva solo ad aumentare il lavoro delle nostre amministrazioni e a scoraggiare con un segnale di chiusura e inutili adempimenti burocratici i lavoratori più qualificati dell’Est europeo dal venire da noi se non per un lavoro stagionale e poco qualificato in agricoltura o nel turismo (come nel caso di tre quarti delle domande depositate dai lavoratori dei nuovi Stati membri nel 2005). La decisione presa all’ultimo Consiglio dei ministri ci avvicina ai sempre più numerosi paesi dell’Unione a 15 che hanno aperto le frontiere ai lavoratori della nuova Europa, rendendosi conto del fatto che hanno livelli di istruzione spesso superiori a quelli dei lavoratori nel paese che li accoglie e che si integrano più rapidamente nel tessuto economico e sociale, coprendo quei posti per cui è sempre più difficile trovare manodopera (come nel caso dei carpentieri polacchi o degli elettricisti cechi immigrati nel Regno Unito). Siamo geograficamente più vicini ai nuovi Stati membri, e abbiamo ora maggiori probabilità di attrarre manodopera qualificata, con ricadute importanti sulla crescita della nostra economia.

Perchè bisogna rivedere la Bossi-Fini

Quella compiuta all’ultimo Consiglio dei ministri è una riforma per via amministrativa della Legge Bossi-Fini. Di fatto si applica il concetto che le quote vengono fissate in base alle domande delle imprese. È un modo per depotenziare le quote che era già stato seguito dal precedente Governo con i lavoratori dei nuovi Stati membri. Riduce il problema dell’irregolarità dei lavoratori che sono già da noi, ma non risolve quello di trovare un modo di selezionare e graduare gli ingressi che tenga conto non solo delle esigenze delle imprese, ma anche dei problemi distributivi e sociali associati all’immigrazione. Senza una riforma organica delle politiche di ingresso rischia di istituzionalizzare una sanatoria permanente.
Il metodo seguito dalla Bossi-Fini è fonte di inutili vessazioni per l’immigrato e il suo datore di lavoro oltre che del tutto inefficace. Spinge solo verso l’irregolarità. Ogni qualvolta l’immigrato cambia lavoro (succede in media due volte all’anno) viene costretto a vivere in un limbo, senza diritti e doveri, oppure deve tornare nel paese d’origine con costi elevati anche per la nostra economia. Finisce per spingere i lavoratori più qualificati a tornare nel paese d’origine lasciando da noi una manodopera meno istruita e obbligata all’irregolarità. Ridicola anche la pretesa di assumere il lavoratore immigrato nel paese d’origine, come se il nostro fatiscente collocamento potesse fare selezione di personale in… Guinea.
Anche le procedure previste nel caso di accertamento delle tante presenze irregolari indotte anche da questa normativa, sono talmente macchinose da assorbire risorse che potrebbero essere altrimenti destinate a combattere la microcriminalità. Per fare un esempio, secondo dati della procura, a Milano nel novembre 2005 il 40 per cento degli arresti è stato effettuato per immigrati presenti in modo irregolare nel nostro paese (facendo peraltro lievitare i costi legati al compenso degli interpreti e dei difensori d’ufficio).

Perché cambiare la legge

Nel riformare la normativa, tre questioni sono centrali.
Si tratta, innanzitutto, di concepire un realistico (anche se non breve) percorso di integrazione che, attraverso il rispetto delle nostre leggi e il pagamento delle tasse, porti l’immigrato a vedersi riconosciuta la cittadinanza. Non deve essere un miraggio, ma una prospettiva concreta. La stessa riforma del percorso di ingresso nel mercato del lavoro, la definizione di un vero e proprio sentiero verso la stabilità, può servire come strumento di integrazione degli immigrati. Bene dunque affrontare il problema del precariato pensando anche agli immigrati.
Il secondo problema è stabilire restrizioni agli ingressi più realistiche, definendo anche criteri di allocazione delle quote (sin qui riempite sulla base dell’ordine della presentazione della domanda, un criterio che favorisce solo chi organizza l’immigrazione clandestina). È immigrazione di lavoro qualificato quella di cui ha oggi maggiormente bisogno la nostra economia. Bisogna, dunque, riconoscere più facilmente il permesso di soggiorno ha chi ha un titolo di studio e magari parla già la nostra lingua o l’inglese. Favorire l’immigrazione di lavoro qualificato significa anche far sì che l’immigrazione riduca le disuguaglianze di reddito a casa nostra, anziché contribuire ad accentuarle.
Il terzo problema è adottare politiche più efficaci di repressione dell’immigrazione clandestina. L’esperienza internazionale ci dice che sono soprattutto i controlli sui posti di lavoro quelli che riescono a scoraggiare il fenomeno, contribuendo al contempo al contrasto del lavoro sommerso, una conclamata priorità per questo Governo. Bene allora potenziare gli ispettorati del lavoro, il cui personale è stato invece promosso su cariche direttive privandolo di posizioni operative. Utile introdurre incentivi alla regolarizzazione contributiva e fiscale delle badanti, un modo anche per riconoscerne la grande funzione in un paese che ha un sistema di protezione sociale pieno di buchi.

Guardando all’Europa

Se l’Italia saprà affrontare questi due problemi in modo innovativo, potrà divenire riferimento importante nel costruire una politica europea dell’immigrazione. Le differenze nelle normative fra paesi servono solo a rendere il processo ingovernabile e a favorire chi specula sull’immigrazione clandestina. E non si possono certo lasciare i paesi più poveri dell’Unione a presidiare le nostre nuove frontiere. L’Italia oggi, con un ministro dell’Interno già vicepresidente della Convenzione europea e un commissario europeo responsabile delle politiche dell’immigrazione, ha tutte le carte in regola per cercare di imporre la svolta verso una politica selettiva e comune a livello europeo.

da www.lavoce.info

Tito Boeri Ph.D. in Economia presso la New York University, è stato senior economist all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) dal 1987 al 1996. E’ stato consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. E’ direttore di un corso di laurea (DIEM) presso l’Università Bocconi di Milano dove insegna Economia del Lavoro. E’ Direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti (www.frdb.org) e collabora a La Stampa e al Sole24ore. I suoi saggi e articoli possono essere letti sulla sua pagina personale

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