La famiglia tradizionale, si diceva nel ’68 “è solo un cancro al cuore, l’origine della maggior parte delle alterazioni, perturbazioni e malattie mentali di cui soffre l’adulto “. Da questa atmosfera culturale nascono oggi le battaglie per l’adozione ai gay, per l’aborto ancor più banale, se possibile, per l’eutanasia, per le droghe libere, per la Ru 486, e per i Pacs. In questo spirito, mentre allora, per distruggere, si urlava che non occorrevano un pezzo di carta, una cerimonia, per volersi bene, oggi si chiede che la società sacralizzi per legge anche ciò che va contro natura e contro il bene dell’uomo
A chi voglia capire l’atmosfera culturale dell’epoca in cui stiamo vivendo, può tornare utile un richiamo alla rivoluzione del 1968: in quegli anni un decadentismo elitario, che già aveva caratterizzato personaggi di spicco di tutta Europa, da Baudelaire a Verlaine, da Huysmans a D’Annunzio, ad Oscar Wilde, esplode a livello di massa.
Le esperienze più stravaganti, più narcisistiche, più autodistruttive, per sfuggire allo spleen di una vita senza senso, avevano portato queste illustri figure dell’Ottocento a trascinare rabbiosamente la propria vita alla ricerca delle esperienze più assurde, come bramosi cacciatori di sensazioni, di emozioni, di profumi e sapori da consumare. Ma il decadentismo rimaneva un fenomeno di pochi, di coloro che si ritenevano, giustamente, perché dotati di anima immortale, “albatri con le ali da giganti”, ma che preferivano poi razzolare nel fango delle cose mondane, per la paura dell’altezza. Forse un cantautore di sinistra come Francesco Guccini, avrebbe potuto rivolgersi proprio a loro con quei bellissimi versi di una sua canzone. “...e voi materialisti, col vostro chiodo fisso, che Dio è morto, e l’uomo solo in questo abisso, le verità cercate, per terra, da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali…”. Questi personaggi, dicevo, materialisti pratici in ogni espressione della loro vita, avevano però una consapevolezza profonda del sentiero che avevano intrapreso: non a caso molti di loro si avvicinarono poi, dopo aver sperimentato il fallimento di una scelta, alla Fede, divenendone, in qualche caso, strenui difensori.
I loro eredi, le generazioni del 1968, non ebbero, molto spesso, la stessa coscienza: il Sessantotto fu l’esplosione di un senso di disgusto, certo motivato, di horror vacui, non senza ragione. Distruggere tutto ciò che c’era, questo fu il motto del 1968: era più difficile rimboccarsi le maniche, ricostruire ciò che rimaneva di buono dal passato. Ed era forse difficile riconoscere qualcosa di bello in una generazione di adulti che spesso non aveva tramandato ciò che aveva ricevuto, per pigrizia, perché in altro affaccendata, perché troppo tiepida nel suo modo di vivere, freddamente, tradizioni antiche e piene di senso. Si ritenne che fosse meglio segare l’albero, tutto intero, senza pensarci, spinti da un odio brutale, irrazionale: vennero così gli anni di piombo, e i giovani uccisi per un nulla, in nome di qualcosa che sembrava un ideale, magari la bella faccia di Che Guevara (solo quella si conosceva), o il nome esotico di Mao.
Il nemico diveniva il senso della vita, sino alla sua morte. Ciò che andava distrutto, soprattutto, era il principio di autorità, il richiamo alla responsabilità di dover crescere e di dover costruire: la figura del padre entrò in crisi, anche a causa di libri come “La morte della famiglia” di D. Cooper (Einaudi, 1972), in cui il matrimonio è presentato come un «patto suicida» che porta a dimenticare l’io, mentre noi «apparteniamo solo a noi stessi», e dobbiamo riconoscere persino la liceità dell’incesto! Si parlava molto a quei tempi di operai, di lotta di classe, di Marx, ma come testimonia un protagonista eccellente di quegli anni, Mauro Rostagno, gli interessi erano spesso altri: lo spiritismo, il sesso, l’utilizzo di droghe, i viaggi in India, per conoscere l’annullamento nirvanico, il vuoto zen, la New age….
Scriveva Rostagno: “A questi discorsi sulla droga associai quello sulla liberazione sessuale […]. Vai in giro a predicare ogni sorta di liberazione e poi, distrutto, torni a casa a picchiare tua moglie e i tuoi figli”.
Il segno più evidente di quella cultura furono i Beatles, o meglio, la loro vita, elevata ad esempio, unico per tutti, perché tutti potessero sentirsi, insieme, controcorrente. Eppure non dovevano essere molto felici neanche loro, se John Lennon arrivava a scrivere: “Volevamo liberare il mondo […]. Parlavamo di pace […]. Per sopravvivere ho sempre avuto bisogno di droga […]. La mia passione per l’LSD è durata anni senza alcun cedimento. Anche George (Harrison) era un fanatico dell’LSD […]. Per anni ho vissuto al centro di uno sfrenato festeggiamento: ero come un imperatore, con miliardi di ragazze, droga, alcool, potere a volontà […]. In fondo eravamo come dei tossici, incapaci di interrompere la nostra routine autodistruttiva […]. Ci procuravamo delle prostitute […]. Del tour di Amsterdam ci sono delle mie foto dove esco strisciando sulle ginocchia da un bordello…” (J. Lennon, “Pace, amore e musica. Scritti autobiografici”, ed Blue Brothers).
Nascono in questi anni le comunità new age di Big Sur in California, Findhorn in Svezia (1962), Auroville (1968) e Poona (1974) in India… Nasce uno spirito, quello underground, che adesso qualcuno vorrebbe dimenticare, ma che era così chiaro, almeno, rispetto all’ipocrisia di oggi: occorre “far capire al vecchio proletario che la musica, l’erba, la comune…sono roba comunista… Noi dovremo diventare i genitori che dovranno sentirsi in grado di prendere l’acido coi propri figli”. Sono parole di Andrea Valcarenghi, amico di Marco Pannella, nel suo “Undergruond: a pugno chiuso”, in un’epoca in cui si parlava schietto. Cos’è la famiglia, si chiedevano molti giovani, nelle loro riunioni “sovversive”? Una struttura oppressiva, come aveva scritto Engels ne “L’origine della famiglia”; una egoistica proprietà privata degli affetti, come avevano spiegato l’eretico Tommaso Campanella, o gli illuministi Morelly e dom Deschamps, o il socialista utopista Fourier, veri antesignani dei moderni centri sociali.
Si pensava cioè che quella vecchia struttura, in cui loro erano nati, non fosse più attuale: tutto muta, tutto diviene, significa che nulla è vero, che nulla è sacro, che nulla ha il diritto di rimanere. Fu un’illusione vissuta con passione, ma soprattutto senza ipocrisia, almeno nell’uso delle parole, da Cohn Bendit, Lidia Ravera, Rossana Rossanda… Scriveva quest’ultima che nell’ottica “di una energica liberazione sessuale…un movimento comunista deve battersi per la fine della famiglia” (“Cinque lezioni sul ‘68”, supplemento al n.34 di Rossoscuola, Torino, 1987).
La famiglia tradizionale, si diceva ancora, “è solo un cancro al cuore, l’origine della maggior parte delle alterazioni, perturbazioni e malattie mentali di cui soffre l’adulto; della sua incapacità di amare e della sua sfiducia nei confronti degli altri” (A.A.V.V., “Arcobaleno: un popolo senza confini”, Terra Nuova). Il responsabile editoriale di “Terra Nuova” era un tale Marcello Baraghini, il quale guarda caso risulta essere poi divenuto responsabile di una sezione dell’editrice “Stampa Alternativa”, vicina ai radicali. Bastano alcuni titoli per comprenderne lo stile: «Eresie psichedeliche»; «Psichedelica»; «Marijuana in cucina. 101 ricette gastronomiche a base di hashisch e marijuana»; «Cannabis non solo fumo»; «Vita Morte Visioni. Il profeta dell’LSD si racconta attraverso scritti, lettere, interviste»; «Diario di un pedofilo» e «Manuale per non suicidarsi»…
Queste erano le letture, le idee, le innovazioni a cui qualcuno affidava la speranza di una vita più bella. Da qui, da questa atmosfera culturale, e non da altro, nascono oggi le battaglie, per l’adozione ai gay, per l’aborto ancor più banale, se possibile, per l’eutanasia, per le droghe libere, per la Ru 486, e per i Pacs… in questo spirito, mentre allora, per distruggere, si urlava che non occorrevano un pezzo di carta, una cerimonia, per volersi bene, oggi si chiede che la società sacralizzi per legge anche ciò che va contro natura, e contro il bene dell’uomo.
Al punto ormai che la nostra civiltà rischia di perdere anche un’enorme conquista, dovuta al cristianesimo: la monogamia, e cioè la pari dignità tra uomo e donna. E’ di questi giorni, infatti, la notizia che il Canada si sta preparando ad abolire il reato di poligamia, riportando le donne ad una condizione di minorità. Del resto, se il matrimonio monogamico tra uomo e donna non è più riconosciuto come qualcosa di naturale, di buono perché corrispondente all’essenza dell’uomo, perché sarebbe vietato aprire le porte a famiglie gay, poligamia, poliandria, scambismo e quant’altro ?
Francesco Agnoli
Professore di storia, studioso della filosofia della scienza fondatore del circolo culturale Il Castello, collaboratore del Foglio e di Avvenire