di Marina Galdo
1 novembre 2004
Trovo sia un’impresa difficile introdurre un argomento tanto sentito qual è al giorno d’oggi l’attività di volontariato senza aver prima provato sulla propria pelle l’esperienza di farvi parte.
L’approccio a questo tipo di attività nasce e si sviluppa principalmente – ma non solo – nel contesto sociale locale dove il volontario vive, dettato sia da un’esigenza personale di dedicarsi al prossimo mettendo al sevizio altrui le proprie ricchezze, materiali e non, che dalla risposta collettiva ad un grido di aiuto che non sempre e non tutti abbiamo il coraggio di lasciare inascoltato.
La mia esperienza personale risale al dicembre 2001, quando il mio fidanzato ed io fummo invitati ad una cena da parte di un gruppo di amici: la cena era a scopo benefico, la prima alla quale avevo mai partecipato.
Allora sentivo di essere molto vicina alle problematiche sociali della città nella quale tuttora vivo, Trieste, e del mondo, tormentato da incomprensibili focolai di guerre, sanguinose rivolte sociali ed episodi terroristici come l’attacco appena avvenuto alle torri gemelle di New York, ma non ancora partecipe come avrei voluto.
Durante la cena, venne illustrata dagli organizzatori la situazione sanitaria e logistica nella quale versavano i bambini di Kabul, ospiti presso una delle strutture fatiscenti chiamata impropriamente “orfanotrofio”, con l’ausilio di toccanti ed impressionanti immagini, per sottofondo la musica di quel paese, l’Afghanistan.
Foto allucinanti, nelle quali ti vedi sbattere in faccia la miseria che non hai mai conosciuto nella tua infanzia, la sporcizia, gli abiti sdruciti, i bambini che nonostante tutto giocano a rincorrersi – quelli che hanno ancora le gambe – e si accalcano attorno ad una vecchia carriola per bere dell’acqua. Ma la cosa che mi colpì di più furono i loro sorrisi, la loro iniziale diffidenza, gli occhi profondi e tristi, le loro giovani vite segnate da episodi traumatici.
Il proposito della raccolta era quello di fornire uno screening sanitario, medicinali ed allestire una struttura più accogliente e dignitosa, ma i soldi da soli non bastavano.
Passato qualche tempo, ci riunimmo nuovamente per dare un indirizzo concreto a quella iniziativa costituendo un’associazione senza fini di lucro, la Spes – Solidarietà per l’educazione allo sviluppo.
Spes, però, vuol anche dire in latino “speranza” ed è la missione che ci siamo prefissi di portare laggiù, a quei figli orfani ma un po’ figli di tutti.
I primi a partire sono stati Massimiliano e Dario, entrambi medici, che hanno visitato uno ad uno i piccoli ospiti, portando loro una muta da calcio donata degli infermieri dell’Ospedale di Cividale, qualche pallone, oltre alle medicine lì introvabili per curare il Kala Azar, malattia endemica in alcuni casi mortale trasmessa da una mosca.
Durante la loro permanenza, hanno contattato un’organizzazione italiana che gestiva sul posto la ristrutturazione di tutti gli orfanotrofi della città e che avrebbe inserito tra gli interventi di miglioramento delle strutture già previsti il nostro progetto, quello di realizzare una cucina che al momento assomigliava ad un antro.
Dopo qualche mese di scambi di e-mail con gli incaricati dell’organizzazione, che a loro volta mediavano con le figure istituzionali locali il nostro lavoro, venimmo informati che aveva avuto luogo l’inaugurazione dell’orfanotrofio ristrutturato alla presenza delle autorità, ed arrivarono le prime foto digitali.
Ci incontrammo a casa di uno dei volontari e proiettammo le immagini sulla parete, dietro al tavolo da pranzo: venimmo sopraffatti dall’emozione e dall’incredulità di aver realizzato tanto per molti con il poco a disposizione.
I bambini e le bambine vestivano gli abiti caratteristici, alcuni assomigliano a dei calciatori con maglie e calzoncini di due taglie più grandi, si facevano ritrarre festosi, sorridenti, cantavano battevano le mani, poi disciplinati su due file attendevano il pasto preparato nella nuova cucina, finalmente all’altezza del proprio compito.
Ognuno di noi, membri fondatori dell’associazione, ha dato il proprio contributo per realizzare quel piccolo miracolo e restituire la speranza di un futuro migliore ai bambini di Kabul.
Massimiliano e Dario hanno vissuto in prima persona questa esperienza, che non è stata l’unica, toccando con mano le ferite ancora aperte di anni vissuti nel terrore della guerra ed hanno trasmesso a tutti l’entusiasmo di sentirci parte del progetto e vicini a quelle creature sfortunate.
Hanno consegnato loro anche matite e fogli ed il ringraziamento di quei bambini sono stati i più di mille disegni che il dicembre successivo abbiamo esposto e venduto ad offerta libera per continuare a dar loro un aiuto concreto, constatando una volta di più la partecipazione della cittadinanza ad eventi tragici in terre e culture così lontane da noi.
L’attività e l’impegno dei volontari della Spes continua ed i progetti realizzati dal 2002 ad oggi sono molti, non solo per l’Afghanistan ma anche per l’Africa, l’Iraq e per le realtà di disagio sociale della popolazione straniera a Trieste che, se adeguatamente salvaguardata, contribuirà attivamente al difficile percorso di integrazione culturale e di crescita della città.