La rete negli Usa non è più neutrale: vincitori, vinti, e irriducibili

Lo scorso quindici dicembre l’agenzia governativa degli Stati Uniti, FCC (Commissione federale per le comunicazioni), ha approvato un provvedimento che pone fine alla neutralità della rete, il principio secondo cui i fornitori di servizi di accesso alla rete (ISP, Internet Service Provider), sono tenuti a non discriminare nella trasmissione dei dati, garantendo parità di trattamento nei confronti dei produttori di contenuti o servizi online (come Netflix, Amazon, Facebook o YouTube). Senza neutralità della rete gli ISP statunitensi (Comcast, AT&T, Verizon, ecc.) potranno decidere di gestire la trasmissione dei dati in maniera diversa a seconda del contenuto, di fatto rallentando, velocizzando o addirittura bloccando l’accesso a certi siti piuttosto che altri.

Il provvedimento preso dalla FCC, che è a guida repubblicana dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, va ad abolire quelle regole che la stessa agenzia, a guida democratica nell’amministrazione Obama, aveva emanato nel 2015 per tutelare la neutralità della rete. L’attuale presidente dell’agenzia, Ajit Pai, scelto da Trump a inizio mandato, ha lavorato tutto lo scorso anno per fare in modo che le regole sulla neutralità della rete fossero abolite, ritenendole superflue. Ciò non stupisce, se si considera che lo stesso Pai, avendo seguito l’ufficio legale di Verizon, proviene dal mondo delle telecomunicazioni.

 

Chi ci guadagna e chi ci perde

Neutralità della rete negli Stati Uniti significava che gli ISP non potevano limitare l’accesso ai contenuti salvo motivi di sicurezza, ma in assenza di regole è molto probabile che, d’ora in avanti, essi seguiranno esclusivamente i propri interessi. Approfittando del nuovo potere acquisito, un ISP come Comcast, ad esempio, che produce anche contenuti tramite NBCUniversal, potrebbe favorire i servizi di streaming che hanno in catalogo i film di NBCUniversal, rallentando al contempo servizi di streaming concorrenti come Netflix o Amazon Prime. Gli ISP potrebbero oltretutto trattare, forti del fatto che ora hanno il coltello dalla parte del manico, con i produttori di contenuti e servizi online, cercando di ricavare lauti compensi in cambio di trattamenti di favore. I costi in più che dovrebbero a quel punto affrontare questi produttori, andrebbero di conseguenza a ricadere sulle tasche del fruitore finale, il quale non solo si troverebbe con un ISP che gli limiterebbe in qualche modo l’esperienza di navigazione, ma rischierebbe anche di pagare più di quanto non pagava prima determinati contenuti o servizi online. La nuova realtà, per di più, graverebbe non tanto sul business delle grandi compagnie di contenuti, che grazie alla liquidità a disposizione sarebbero facilmente in grado di accedere a “corsie preferenziali”, quanto piuttosto sulle piccole compagnie, magari emergenti, che invece verrebbero messe all’angolo. Di fatto, a uscire vittoriosi dall’abolizione della neutralità della rete sono gli ISP, e a pagarne il costo i consumatori finali, le piccole compagnie di produzione di contenuti, e la sana concorrenza che negli anni passati ha permesso ai vari Google, Facebook e Amazon di diventare quello che sono oggi.

 

Regolamento in Italia e nell’UE, reazione negli Usa

Nel 2015, dopo lunghe consultazioni con i portatori di interessi, l’Italia è riuscita ad adottare la “Dichiarazione dei diritti di internet che all’articolo 4 recita testualmente “Il diritto ad un accesso neutrale ad Internet nella sua interezza è condizione necessaria per l’effettività dei diritti fondamentali della persona”. Nell’Unione Europea, invece, la neutralità della rete è garantita dal recente regolamento 2015/2120, applicabile direttamente anche in Italia, che stabilisce misure riguardanti l’accesso a un Internet aperto, sancisce norme vincolanti sulla neutralità della rete nella legislazione dell’Ue, e stabilisce per la prima volta in Europa il principio di una gestione del traffico non discriminatoria.

Le preoccupazioni sugli effetti che l’abolizione della neutralità della rete negli Stati Uniti potrebbe avere nel nostro continente sono, dunque, poco giustificabili, anche se non è escluso che alcuni politici europei possano fare propria la battaglia trumpiana sulla deregolamentazione di internet in vista delle prossime elezioni europee del 2019. Non è escluso, ma pare difficile, soprattutto perché le reazioni della società civile, delle grandi compagnie tecnologiche, e delle stesse istituzioni americane, è stata molto dura nei confronti della riforma della FCC. Le più famose big tech statunitensi, ad esempio, si sono apertamente schierate contro l’agenzia, prendendo parte ad una azione legale congiunta volta a ribaltare una decisione giudicata arbitraria e contraria al volere bipartisan della maggioranza degli americani. Altre azioni legali sporte nei confronti della FCC provengono dalle più importanti associazioni di consumatori e da alcuni procuratori generali a livello statale.

Non finisce qui

Le nuove norme sulla rete non sono ancora in vigore e non lo saranno per almeno altri tre mesi, ma il dibattito è già acceso, soprattutto nella politica americana, che si appresta ad affrontare le elezioni di metà mandato. I democratici cavalcano già la battaglia sulla neutralità della rete per acquisire consenso tra i giovani in vista delle elezioni, mentre in senato si registrano i primi appoggi  da sponda repubblicana al tentativo democratico di ribaltare la decisione della FCC. Per farlo non basterà soltanto la maggioranza al Senato e alla Camera dei rappresentanti, servirà anche l’approvazione di Donald Trump, che però è il primo sostenitore della nuova regolamentazione. Appare più verosimile l’ipotesi che un ribaltamento possa verificarsi in qualche tribunale, dove la FCC dovrà, tra le altre cose, dimostrare che dal 2015 a oggi siano cambiate circostanze a sufficienza per giustificare il cambiamento di regole approvate appena due anni fa.

 

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