Oltre gli slogan

Emmanuele Massagli

Ad oggi, circa il 47% dei contratti stipulati dai giovani è un contratto a termine. La maggioranza di questi diventa in pochi anni un contratto a tempo indeterminato, ma l’uso distorto delle forme contrattuali flessibili genera quel sentimento di insicurezza insito nel termine “precarietà”.

“Precariato” è certamente uno dei termini dotati di grande fortuna mediatica in questi anni di crisi economica. Il repentino aumento del tasso di disoccupazione giovanile osservato dal 2007 al 2012 (+9,3% per la fascia di età 15-24, dati di gennaio) ha reso evidente anche ai non addetti ai lavori il problema dell’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Criticità che, invero, guardando ancora ai dati, è cronica per l’Italia. Tuttavia, la semplificazione politica e giornalistica ha erroneamente inteso riportare in auge l’equivalenza legge Biagi = precarietà. Vengono imputate alla riforma Biagi colpe che non le appartengono. Se guardiamo all’incidenza dei contratti a termine sul totale dei rapporti di lavoro dei giovani, notiamo che, effettivamente, l’incremento del numero dei contratti a termine (all’interno dei quali coesistono sia la flessibilità definita “buona”, sia quella “cattiva”) negli anni 2000 è inserito in un trend in crescita risalente a prima del 1990, in un periodo precedente non solo al pacchetto Treu ed alla legge Biagi, ma anche al Protocollo Ciampi. L’impegno non può essere tanto quello di trovare i “colpevoli”, quanto quello di interpretare un fenomeno comunque in crescita, che va certamente corretto. Ad oggi, circa il 47% dei contratti stipulati dai giovani è un contratto a termine. La maggioranza di questi diventa in pochi anni un contratto a tempo indeterminato, ma l’uso distorto delle forme contrattuali flessibili genera quel sentimento di insicurezza insito nel termine “precarietà”. Il fenomeno del precariato, quindi, oltre agli slogan ideologici, merita un approfondimento più puntuale ed intellettualmente onesto. Come disse l’allora Presidente dell’Istat nel 2006, nel corso di un’audizione conoscitiva, «la nozione stessa di precariato non è chiara, né le opinioni al riguardo sono univoche, e, purtroppo, anche le informazioni statistiche disponibili sul fenomeno nei vari Paesi europei, compresa l’Italia, non sono sufficienti per far completa luce sul fenomeno e sulle cause che lo generano». Neppure i glossari giuridici, quelli economici e quelli statistici condividono la definizione precisa di questo termine. «Precario», letteralmente, è colui che è soggetto a venir meno, incerto, provvisorio. È molto recente il successo di questa parola nella sua accezione lavoristica: il precario è colui che detiene un rapporto di lavoro temporaneo o, comunque, non garantito.

Considerata l’elevata disoccupazione giovanile italiana e le tipologie contrattuali attraverso le quali buona parte dei giovani accede al mondo del lavoro, col tempo si è affermato sui media il binomio inscindibile “giovane precario”. Invero, il termine “precariato” assume un’accezione esclusivamente sociale, non certamente giuslavoristica. I concetti giuridici più fedelmente associabili sono forse quelli di “flessibilità” ed “atipicità”. Nel provare a stimare il fenomeno, i tecnici hanno agganciato il significato e le situazioni di precariato alla percezione di insicurezza legata principalmente alla mancanza di continuità nell’appartenere al mercato del lavoro ed alla mancanza di un reddito adeguato per poter pianificare il proprio futuro con un margine di tranquillità. In particolare, la parola è fortemente assimilata alla «flessibilità contrattuale», particolarmente legata a condizioni di precarietà intesa anche in senso sociologico, se consideriamo che l’88% dei lavoratori italiani con contratto a termine afferma che la temporaneità non è una sua scelta, contro il 55% dei lavoratori a tempo determinato dei Paesi dell’Unione Europea. Secondo questa definizione, i contratti di lavoro a rischio precarietà sono quindi quelli a tempo determinato meno protetti dal punto di vista previdenziale e degli ammortizzatori sociali: la collaborazione occasionale, la collaborazione coordinata e continuativa, il c.d. lavoro a progetto. Ma nella definizione rientrano anche rapporti che non costituiscono veri contratti di lavoro: lo stage, il lavoro del socio, la partita Iva in monocommittenza. Ovviamente, non può che considerarsi precario il lavoro sommerso e senza contratto. La notevole diffusione di queste forme contrattuali ha convinto i giuristi del lavoro a convergere, unanimemente, verso l’esigenza di un intervento riformatore volto a sanare il dualismo di protezione previdenziale ed assistenziale creatosi nel diritto del lavoro tra lavoro c.d. standard e lavoro c.d. non standard. Sono poi molto diverse le tecniche e le soluzioni proposte per contrastare questa discriminazione (dal contratto unico allo Statuto dei lavori). Ad oggi (si veda il progetto di riforma del mercato del lavoro comunicato dall’attuale Governo ad inizio aprile) sembra prevalere una filosofia di intervento incentrata sull’irrigidimento della flessibilità in entrata (in cambio di un affievolimento della rigidità in uscita), a partire da una valutazione del fenomeno che associa i termini flessibilità e precarietà. È un cambio di paradigma di non poco conto rispetto alle linee guida che hanno indirizzato gli interventi sul mercato del lavoro nell’ultimo decennio. L’osservazione del mercato del lavoro aveva infatti convinto il legislatore che la realtà è molto più complessa e multiforme delle teorie giuslavoristiche. Non a caso, l’intenzione della legge Biagi era quella di superare il normotipo rigido del solo contratto a tempo indeterminato per interpretare il moderno mercato del lavoro e difendere il lavoratore “nella” flessibilità prima ancora che “dalla” flessibilità. Ciò a partire dalla convinzione che non è la legge a creare il lavoro “atipico”, quanto l’evoluzione del contesto economico che richiede sempre nuove e diverse forme di organizzazione del lavoro.

Questo proposito è ancora attuale. Non è possibile rispondere alla precarietà semplicemente abrogando le forme di lavoro flessibili. Il saldo occupazionale sarebbe negativo (si passerebbe dal problema della “precarietà” a quello della “disoccupazione”) e, soprattutto, non si fornirebbero a lavoratori ed imprese strumenti contrattuali capaci di valorizzare il rapporto di lavoro nell’eterogeneità delle situazioni lavorative del mondo moderno: si pensi alla stagionalità, ai “lavoretti” per i giovani, alla crescita del settore della consulenza e dei servizi, alle nuove metodologie di gestione delle catene di montaggio industriali, alla variabilità economica di molti settori merceologici, all’affermazione delle grandi aziende dell’informatica a basso impiego di personale, alla modernizzazione della pubblica amministrazione, ecc.
Il diritto del lavoro del futuro non può costruirsi attorno all’affermazione dogmatica ed anacronistica di una sola tipologia contrattuale. Deve riuscire ad escogitare regolazioni snelle, maggiormente affidate alla dialettica delle relazioni di lavoro, che permettano di adattarsi ad ogni singola e diversa situazione, ponendo al centro la tutela del lavoratore e la promozione del lavoro di qualità, indipendentemente dalla forma contrattuale che regola il rapporto. In ogni situazione, dando certezza si supera la precarietà.

Emmanuele Massagli
Presidente di Adapt – Associazione per gli Studi Internazionali
e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni Industriali

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