Le vie della ricerca sono finite?

Nel corso degli anni, il finanziamento pubblico è stato ridimensionato e solo una piccola percentuale delle aziende private investe, vantando brevetti propri. Poco più dell’1% del Pil viene investito in ricerca scientifica e tecnologia (Istat), contro una media europea del 2%.

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” recita l’articolo 9 della Costituzione, contribuendo al progresso della Nazione e dell’umanità intera. Negli anni successivi all’Unità d’Italia, gli scienziati protagonisti delle lotte risorgimentali diventarono parte del corpo politico, mentre, nel corso del XX secolo, la crescente professionalizzazione della classe dirigente ridimensionò il ruolo sociale degli uomini di scienza. Oggi, quando parliamo di ricerca ed innovazione, discutiamo di fondi scarsi, poca meritocrazia, lavoro precario e “fuga di cervelli”. Nel corso degli anni, il finanziamento pubblico ordinario è stato ridimensionato e solo una piccola percentuale delle aziende private investe nel settore, vantando brevetti propri. Poco più dell’1% del Pil viene investito in ricerca scientifica e tecnologia (Istat), contro una media europea del 2%. “Da 15 anni – spiega il professor Dario Braga, prorettore alla Ricerca dell’Università di Bologna – le risorse centro-periferia sono in costante diminuzione; cresce, quindi, il bisogno di trovare fondi per la ricerca al di fuori del Ministero. Il finanziamento internazionale, soprattutto europeo, è fondamentale per i progetti universitari: l’Università di Bologna, durante il settimo programma quadro tutt’ora in vigore, ha ottenuto dall’Unione circa 43 milioni di euro, grazie anche al prezioso contributo del governo regionale che, creando la Rete Alta Tecnologia con centri di ricerca industriale, ha reso l’ateneo competitivo con gli altri Paesi”.

In questo scenario, troviamo in ascesa la ricerca applicata, mentre, a soffrire, è quella di base, poco appetibile per le imprese ed ancorata ai soli fondi pubblici. “Ciò porta a un doppio problema politico negli atenei – continua Braga – sia per la ridistribuzione del denaro interno a chi non può procurarsi finanziamenti esterni, sia per la mancanza di una valutazione di quello che hanno prodotto i soldi investiti. Servirebbe un forte autogoverno della ricerca per reperire, usare le risorse e valutarne il risultato”. Tra le risorse preziose per la ricerca non vanno poi dimenticate quelle umane, i ricercatori. “La legge 240/2010 (legge Gelmini) traccia un confine netto tra chi fa ricerca, conferendo assegni a tempo determinato che sono veri e propri contratti di lavoro. Il problema nasce quando il ricercatore esce dall’Università ed entra nel mondo del lavoro italiano, che non riconosce il valore di mercato della ricerca scientifica. Motivo per cui, tra l’altro, i cervelli fuggiti all’estero non rientreranno”. La legge 240/10 prevede un sistema basato su “idoneità nazionali” per il reclutamento del personale, in maniera tale da far risultare tutti gli idonei ugualmente preparati. “Non trovo che le idoneità nazionali rappresentino un metodo per assumere i più meritevoli: in Italia non abbiamo gli schemi e i meccanismi per assumere i più bravi e, il più delle volte, nemmeno il budget necessario per indire concorsi adeguati”. I gruppi di ricerca sono così costretti a reperire fondi all’estero per poter svolgere la loro attività. “Per ottenere finanziamenti europei nel nostro settore – spiega Nicola Poli, fisico, ricercatore a tempo determinato all’Università di Firenze – dobbiamo collocarci al top, competendo con le migliori Università e i Centri di Ricerca europei. Un progetto richiede investimenti di diverse centinaia di migliaia di euro: senza un contributo dall’Italia, rimanere a un alto livello diventa sempre più difficile. Poter concorrere in Europa, d’altro canto, può essere anche un vantaggio, in quanto la programmazione dei fondi e i criteri di assegnazione sono chiari. In questa situazione è necessario amministrare al meglio le risorse disponibili, in modo da poterle utilizzare sia per portare avanti un progetto applicativo, sia per promuovere la ricerca di base, il cuore dell’innovazione, per la quale i soldi pubblici sono scarsi”. L’ambito accademico rappresenta solo uno dei possibili impieghi per la ricerca e l’innovazione: l’incontro con l’impresa privata viene sostenuto sempre più dagli incubatori d’impresa, nati grazie a fondi provinciali, regionali ed europei.

Sebbene ancora disomogenei a livello nazionale, promuovono e supportano la nascita e la crescita di piccole imprese nel campo delle nuove tecnologie, mettendo a disposizione locali, strutture, servizi ed agevolazioni finanziarie, pubbliche e private. “Dal 2004 a oggi – spiega Bruno Pecchioli, presidente della Scuola Superiore di Tecnologie Industriali di Firenze e gestore dell’incubatore del capoluogo toscano – abbiamo aiutato a far nascere 35 nuove imprese appartenenti a diversi settori merceologici, soprattutto ICT e Web, energie rinnovabili ed ambiente, ma anche elettronica, optoelettronica, nanotecnologia ed elettromagnetismo”. Mentre molti studenti italiani scelgono un periodo di ricerca all’estero, è generalmente difficile attrarre nel nostro Paese ricercatori stranieri, sia per il macchinoso e lungo iter di inserimento, sia perché la retribuzione è minore che altrove. Inoltre, le uniche borse di studio con criteri e programmazione definiti sono ancora erogate tramite fondi europei (borse Marie Curie, fondi POR-FSE). “L’innovazione è continua e globale – afferma Poli – ed è pertanto indispensabile riuscire ad attirare in Italia i migliori ricercatori di altri Paesi. È, poi, risaputo che anche se con meno soldi, la produzione scientifica nel nostro Paese è molto elevata, e i ricercatori italiani sono sempre molto apprezzati all’estero per le loro competenze e la loro volontà: è proprio per questo che non possiamo permetterci di perdere chi ha passione in questo settore, in quanto sicuramente ne perderà la futura classe dirigente”. A soffrire particolarmente, oggi, è la ricerca umanistica, che vive di soli fondi pubblici. “Alcune attività dovranno essere ridimensionate a causa dei tagli, e questo è un controsenso in una Nazione come la nostra, conosciuta in tutto il mondo per la sua cultura umanistica”.

Giorgia Biagini
Scienze della Comunicazione Pubblica e Sociale – Università di Bologna

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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