Una vita senza tregua

Levi respingeva l’idea di “comprendere”, se comprendere significa entrare nella testa di chi ha progettato e pianificato delitti fuori da ogni misura umana. Quello che più colpisce in lui è proprio la sofferenza di quell’interrogativo: cercava argomenti razionali di fronte a qualcosa che razionale non è e tuttavia non è estraneo alla condizione umana.

Chi ha letto con attenzione “Se questo è un uomo”, sa che Levi non ha scritto un libro sullo sterminio degli Ebrei d’Europa (lo scrittore respingeva con decisione il termine Olocausto), ma sullo sterminio nazista in generale (Ebrei, deportati, militari, partigiani, Slavi). Basta rileggere ciò che scrisse su giornali e riviste a partire dagli anni ‘50. Levi è davvero un centauro, nel senso che possiede una doppia natura: scrittore e testimone, Italiano ed Ebreo, chimico e intellettuale. L’opera citata si apre con una dichiarazione precisa: sono stato catturato come partigiano, minacciato di fucilazione, e mandato nel Lager come Ebreo. A questo aspetto di militante per la Resistenza, combattente per la libertà, Levi ha sempre tenuto molto e lo ha ribadito in tanti scritti. Inoltre, “Se questo è un uomo” non è solo una testimonianza, ma anche una lunga riflessione sulla natura umana in condizioni estreme. È un libro di etologia. Vi si parla dell’animale-uomo. Anche questo è un aspetto della natura bifida dell’autore: scrittore e scienziato, testimone ed etologo. Tuttavia, per ragioni sulle quali sarebbe davvero interessante indagare, Levi è diventato una sorta di icona dell’Ebreo deportato, un martire dell’Olocausto. Se fosse ancora qui con noi, con la pacatezza e l’umorismo che possedeva, prenderebbe le distanze da questa lettura parziale di sé. Lo ha fatto in alcuni scritti giornalistici, sia dove avanza dubbi sulla sua identità di scrittore ebreo, sia dove respinge la santificazione delle vittime del nazismo e rivendica il diritto di poter approfondire ciò che è accaduto, tema su cui non gli pare facile trovare una spiegazione. Levi respingeva l’idea di «comprendere», se comprendere significa entrare nella testa di chi ha progettato e pianificato delitti fuori da ogni misura umana. Quello che più colpisce in lui è proprio la sofferenza di quell’interrogativo: da scienziato – meglio, da tecnico – cercava argomenti razionali di fronte a qualcosa che razionale non è e tuttavia non è estraneo alla condizione umana. Sono trascorsi quindici anni dalla scomparsa di Levi e il suo libro più importante è ancora quello meno letto: “I sommersi e i salvati”. Certo, “Se questo è un uomo” è un capolavoro di evidente ispirazione letteraria. Tuttavia, il libro che bisognerebbe leggere e discutere è l’ultimo. Non perché è il suo testamento, ma perché è una delle opere più importanti del XX secolo. Un libro che contiene riflessioni vertiginose sulla natura stessa della testimonianza dei sopravvissuti al Lager, dei salvati, sul possibile fallimento storico della testimonianza presso i contemporanei, sulla perdita della memoria (tutto si può ripetere, anche il Lager). Ma, soprattutto, perché presenta l’enunciazione di un tema diventato centrale nelle attuali società di massa: la «zona grigia». Nel Lager non esistono solo i carnefici e le vittime, ma anche una vasta zona intermedia tra il bianco e il nero, tra il bene e il male. La «zona grigia», appunto. Lì stanno tutti quelli che non sono né solo carnefici, né solo vittime, ma possono assumere entrambe le posizioni, alternativamente. Per poter funzionare, il Lager – ma non solo il Lager – ha bisogno della collaborazione di molti. Scrive Levi che quanto più il potere è oppressivo, tanto più avrà bisogno di collaboratori silenziosi; quanto più è ristretta la cerchia del potere, tanto più ci sarà bisogno di ausiliari esterni. Nel descrivere la zona grigia, e nel determinare il grado di responsabilità diretta ed indiretta degli individui, lo scrittore ha chiaro il fatto che nel nostro patrimonio genetico di animali gregari c’è una precisa inclinazione al dominio dell’uomo sull’uomo. La storia, anche quella recente, continua, purtroppo, a confermare l’importanza della riflessione di Levi sulla «zona grigia» e sulla natura ambivalente dell’essere umano (la brutalità e la pietà che possono coesistere nel medesimo individuo). L’aspetto straordinario di Primo Levi è la sua intelligenza pacata, il suo continuo sottotono. Anche quando afferra per i capelli una questione decisiva, non alza mai la voce, ma ragiona sommessamente. Due nuove biografie, a cura di Carole Angier e Ian Thomson, edite in Gran Bretagna, promettono di scandagliare la vita di quest’uomo silenzioso e intelligente, discreto e dotato di humour. Vogliono rivelare il segreto del suo gesto estremo. Liberi di farlo. Ma, come in un celebre racconto di Poe, ciò che riguarda Primo Levi, l’oggetto cercato, è lì in bella mostra, sotto gli occhi di tutti, tanto in evidenza che nessuno se ne accorge. Le cose importanti, anche su se stesso, le ha già scritte lui. Basta leggerle con attenzione e rispetto. Due studiosi stranieri, il Giapponese Koji Taki e l’Inglese Robert Gordon, hanno recentemente riassunto il paradosso di Primo Levi in modo molto elegante. Gordon parla di «virtù ordinarie» (Primo Levi’s Ordinary Virtues, Oxford University Press): senso comune, amicizia, ironia, gioco. Taki lo ha invece inserito in un volume dedicato ai geni del XX secolo. In rapporto a Beckett, Eliot, Walter Benjamin e altri, Levi è un genio-non genio proprio perché non possiede, all’apparenza, niente di straordinario: è un uomo normale e di buona memoria. Questo è il paradosso di Levi. Scioglierlo non sarà, per nostra e sua fortuna, facile.

Marco Belpoliti
Scrittore e critico letterario italiano

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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