
Nel panorama della preservazione digitale, sta emergendo un nuovo filone di ricerca: l’archeologia dei videogiochi. Vecchi software possono diventare oggetto di studio, paragonabili a veri e propri siti archeologici o manoscritti antichi, quindi come effettivi “reperti” che raccontano l’evoluzione tecnologica e culturale di un’epoca. Tra i casi più emblematici di questa nuova corrente c’è quello di Entombed, un videogioco per la console Atari 2600, pubblicato nel 1982, che ha lasciato dietro di sé un enigma rimasto irrisolto per quasi quarant’anni.
Il gioco, ambientato in un antico labirinto, metteva il giocatore nei panni di un esploratore che, inseguito da zombie, cercava di fuggire da un percorso che si generava continuamente davanti a lui. Ma la vera particolarità di Entombed non era il gameplay (cioè il modo in cui si giocava), bensì il misterioso algoritmo che generava i labirinti.
L’Atari 2600 era una console molto limitata: disponeva solo di 4 kilobyte di memoria per il gioco e 128 byte di memoria operativa (RAM). Questo rendeva impossibile memorizzare in anticipo tutti i percorsi del labirinto. Gli sviluppatori dovettero quindi ideare un sistema capace di generare i percorsi in tempo reale, man mano che il gioco procedeva.
La soluzione fu un algoritmo di generazione procedurale basato su una tabella di lookup: una sorta di mini-database di 32 valori che, combinando cinque celle adiacenti già presenti nel labirinto, decideva se la prossima cella dovesse essere un muro, un passaggio libero o una scelta casuale.
Secondo uno degli sviluppatori dell’epoca, Steven Sidley, l’origine di questo algoritmo sarebbe addirittura quasi leggendaria: pare sia stato scritto “da un tizio ubriaco che lo programmò tutto in una notte, e il giorno dopo non ricordava più nulla”. Una battuta? Forse. Ma la complessità e l’opacità del codice sembravano davvero confermare questa versione.
Nel 2019, due studiosi John Aycock, informatico dell’Università di Calgary, e Tara Copplestone, archeologa digitale della York University decisero di analizzare Entombed in profondità, analizzando e disassemblando il codice del gioco, riga per riga. Scoprirono così che l’algoritmo non solo era difficile da interpretare, ma conteneva anche un bug (un errore nel codice) e veniva riutilizzato in altri giochi dell’epoca. In particolare, identificarono un punto in cui il comportamento del gioco risultava imprevedibile, segno che chi lo aveva scritto probabilmente non lo comprendeva fino in fondo neppure lui.
Nel 2021, con un nuovo studio intitolato Still Entombed After All These Years, i due ricercatori affiancati da una terza studiosa, Katie Biittner riuscirono a contattare Paul Allen Newell, uno degli sviluppatori originari dell’algoritmo. Newell aveva conservato una ricchissima documentazione risalente al periodo 1981-1982. Questa scoperta permise finalmente di ricostruire la vera origine dell’algoritmo. Il meccanismo usato per generare i labirinti era stato progettato in più fasi e che quella famosa tabella di 32 valori (chiamata nel progetto “NEWT”) era il risultato finale di numerosi tentativi e ottimizzazioni.
Il caso di Entombed è diventato un esempio celebre di come anche i software possano essere studiati come reperti archeologici. Proprio come accade per un vaso antico o un affresco romano, anche il codice di un videogioco può raccontare storie, svelare errori e riflettere le condizioni tecniche e culturali del tempo.
L’unicità del gioco sta nel fatto che nessun altro titolo dell’epoca utilizzava un metodo simile per generare i labirinti, e che questo metodo rimase a lungo un mistero per chiunque cercasse di decifrarlo. Il lavoro congiunto di uno scienziato informatico, un’archeologa digitale e uno degli autori originali ha permesso di risolvere il mistero, quarant’anni dopo.