
Tra promesse di inclusione e paure infondate, l’intelligenza artificiale sta cambiando la scuola.
Ho 17 anni, vado al liceo, e come tanti ragazzi della mia età sto iniziando a usare l’AI nella mia vita quotidiana: per studiare, cercare informazioni, rivedere concetti, perfino per scrivere meglio. Ma a scuola, spesso, tutto questo è visto quasi con sospetto.
L’intelligenza artificiale viene trattata come se fosse solo una “chat che ti fa i compiti”, un trucco da evitare, qualcosa da vietare. In realtà, potrebbe essere uno strumento potente per imparare meglio, soprattutto per chi ha più difficoltà.
Purtroppo invece di spiegarci come usarla in modo intelligente, molti professori preferiscono ignorarla o proibirla senza discutere.
Ma l’AI nell’educazione non è solo una moda. Sta già cambiando il modo in cui si può imparare, in Italia e nel mondo. E può fare davvero la differenza, se viene usata con consapevolezza.
Uno dei vantaggi che l’AI ci offre è la possibilità di adattare i contenuti ai bisogni di ciascuno. Ci sono piattaforme — come Squirrel AI in Cina o la versione nuova della Khan Academy con GPT‑4 — che riescono a creare un percorso di studio su misura, in base a quello che sai già e a quello che ti serve davvero.
Io stesso, qualche volta, ho usato l’AI per farmi spiegare meglio concetti di fisica o matematica che in classe non avevo capito completamente. È come avere un tutor personale 24/7. Inoltre se uno studente non ha i mezzi per pagare ripetizioni, questo può fare la differenza.
Ma non solo, ci sono studenti che hanno dislessia, problemi di vista o difficoltà a scrivere. In questi casi, l’AI può diventare una vera svolta: lettori di testo, riconoscimento vocale, traduzione automatica, ecc. Tutte cose che possono rendere le lezioni più accessibili. In alcuni paesi europei già succede. Da noi, invece, se uno prova a usare un assistente vocale per leggere un testo scolastico, rischia di essere accusato di “barare”.
L’AI può aiutare a tradurre testi scolastici in dialetti o lingue minoritarie, rendendo lo studio più vicino alla realtà di chi vive in aree isolate o dimenticate. Questo è un esempio concreto di inclusione tecnologica.
Dove l’AI sta fallendo (per ora)? In teoria, l’AI può aiutare tutti. In pratica, serve internet, serve un dispositivo, serve saperlo usare. Nella mia scuola, ci sono ancora laboratori con computer lenti e connessioni che si bloccano. Ancora più questo può succedere in altre parti d’Italia, o nei paesi a basso reddito, dove il 90 % degli studenti non ha una connessione stabile. L’AI rischia quindi di allargare il divario tra chi può permettersi la tecnologia e chi no.
Inoltre gli algoritmi che apprendono da enormi quantità di dati possono risultare sbilanciati a seconda del contesto in cui operano, quindi anche le risposte dell’AI lo saranno. Ci sono già stati casi in cui sistemi di correzione automatica penalizzavano studenti stranieri o di classi sociali più basse. Non è colpa del software in sé, ma di come viene costruito e addestrato. Anche questo, però, a scuola non viene spiegato.
Un altro problema è pensare che basti un’app per “insegnare”. Ma l’istruzione vera non è solo capire un concetto, è anche relazione, fiducia, dialogo. Un bravo professore capisce se uno studente è in difficoltà anche se non lo dice. L’AI non può farlo: serve come supporto, non come rimpiazzo.
In conclusione quello che mi colpisce di più, da studente, è che in tante scuole italiane si fa di tutto per allontanare l’AI invece di insegnarci a usarla bene. Eppure siamo già circondati da algoritmi. Se non impariamo a capirli, finirà che li subiremo senza accorgercene. Secondo me, l’intelligenza artificiale non è il nemico, e neanche la soluzione perfetta. È uno strumento, e come ogni strumento può fare bene o male a seconda di chi lo usa e come. Sarebbe bello se a scuola si parlasse di AI non solo per vietarla, ma per spiegarci davvero come funziona, dove ci può aiutare, e dove dobbiamo fare attenzione.
In fondo, siamo noi — studenti, insegnanti, cittadini — a decidere che ruolo vogliamo dare a queste tecnologie nel futuro dell’educazione. E il futuro, alla fine, è proprio la nostra generazione.