Al fine di non dover più convivere con l’analfabetismo funzionale, o, quanto meno, al fine di ridurlo ai minimi termini, occorre fare in modo che la scuola non solo dia di più, ma chieda anche di più. Un impegno difficile, ma non impossibile: come vedremo, alcuni dati confortanti ci spingono ad agire prima che sia troppo tardi. Bisogna, infatti, sbrigarsi: più si consolidano le tendenze in atto ormai da decenni, più si riduce per sfinimento l’area di opinione pubblica favorevole a cambiare le cose. Ne va del destino di una civiltà dotata, tra i suoi caratteri principali, della capacità di evolversi innestando le novità sul tronco della tradizione, ma non della garanzia che questo accada comunque.
A mio parere, occorre che migliori in maniera decisa la qualità del nostro sistema scolastico. La nostra scuola soffre da anni, se non da qualche decennio, di una pressoché totale mancanza d’identità, con l’eccezione dei licei tradizionali. In particolare, stiamo assistendo, a partire dai primissimi anni ’90, ad una metodica distruzione degli indirizzi tecnici e professionali, i cui curricula sono stati completamente stravolti e sommersi da una miriade di materie. Queste hanno il “pregio” di dare lavoro ad un cospicuo numero di laureati disoccupati, ma accusano lo spietato difetto di danneggiare gli allievi in maniera spesso irreparabile. Sfido chiunque a far fronte a 14, 15 e perfino 16 materie riuscendo a mantenere interesse e passione per la scuola e per la cultura. Chi si arrende dovrà fare i conti con un sapere enciclopedico che ha poco a che fare con una scuola degna di questo nome, quella che dovrebbe formare futuri cittadini dotati di passione culturale, senso critico e socratica consapevolezza di sapere di non sapere. Un vero vaccino, quest’ultimo, per immunizzarci dal rischio di diventare superficiali e, nello stesso tempo, anche arroganti, come sembra, purtroppo, accadere sempre più spesso nella nostra società.
Insomma, non è certo colpa del destino se il numero dei bocciati e di coloro i quali sono al di fuori di qualsiasi percorso formativo, lavoro compreso, è sempre più impressionante e tale da collocarci agli ultimissimi posti fra i Paesi Ocse. In questi anni, per la gran parte dei pedagogisti, per molti ministri e per la potentissima burocrazia ministeriale, la colpa della crisi del nostro sistema formativo sembra essere esclusivamente di chi lavora nella scuola: didattica antiquata, insufficiente “personalizzazione” dell’apprendimento, scarsa attenzione alle “problematiche” della società renderebbero la scuola troppo distante dalla realtà. Si è pensato di rimediare con un numero crescente delle cosiddette educazioni (salute, inclusione, smartphone, diversità, legalità, cittadinanza, pace…) e dei più vari e, spesso, inutili progetti. Una miriade di progetti che hanno contribuito a togliere a certi indirizzi scolastici quell’identità di cui parlavamo sopra. E qualsiasi istituzione, privata della sua identità, perde inesorabilmente di credibilità e di importanza. A tutto questo si aggiunge la progressiva sparizione degli esami (ne sono rimasti due, resi sempre più facili e utili solo a salvare la faccia davanti alla Costituzione che ce li impone): contribuisce ulteriormente a non dare importanza al ruolo che la cultura dovrebbe ricoprire all’interno della società.
Quasi mai abbiamo sentito qualche pedagogista richiamare il valore della disciplina e mai è capitato di farlo a qualche ministro, salvo la Gelmini, la quale reintrodusse il voto in condotta, che va e viene come si trattasse di un gioco tra ragazzi. Né governanti, né partiti e neppure un Presidente della Repubblica hanno parlato agli studenti di responsabilità, doveri che si accompagnano ai diritti, rispetto delle regole e degli insegnanti. E gli insegnanti, come i dirigenti, mai sono stati sollecitati a farle rispettare con la necessaria fermezza. Frequenti, anzi, i messaggi in direzione opposta, come la recente, nuova abolizione del 5 in condotta da parte del ministro Fedeli. In assenza di tutto questo, non stupiscono le difficoltà di chi in classe cerca di contrastare, anche con sanzioni, i comportamenti scorretti. Difficoltà crescenti in maniera esponenziale e drammatica. Di esse si occupa da anni, tra i pochissimi a farlo, Adolfo Scotto di Luzio. Altrettanto drammaticamente, esse emergono dai fatti di cronaca nera di questi ultimi mesi. Allo stress crescente tra gli insegnanti si affiancano i danni molto seri alla preparazione degli studenti. Ne consegue un’allarmante crescita dell’analfabetismo funzionale in adulti in possesso di diploma di scuola superiore e, perfino (6,9%), di quello di laurea.
Eppure, tornando al discorso iniziale, alcuni dati farebbero ben sperare su un possibile futuro cambiamento. Sono quelli ricavati da un sondaggio commissionato pochi mesi fa dal Gruppo di Firenze a Eumetra MR. In base ad essi, si può tranquillamente escludere che l’opinione pubblica approvi le politiche scolastiche e gli orientamenti pedagogici in atto. Dati, insomma, che aprono a qualche speranza, a qualche possibilità che le cose possano davvero cambiare, purché la classe dirigente lo voglia. Se lo farà, avrà il consenso della maggioranza degli Italiani. Ecco, in sintesi, i dati: per il 67% degli Italiani la scuola è troppo poco severa riguardo alla condotta degli allievi; il 68% giudica sbagliata la recente abolizione della bocciatura per l’insufficienza in condotta; il 59% pensa che la scuola sia troppo poco esigente riguardo alla preparazione degli studenti; il 75% considera utili i compiti a casa; circa il 50% ha saputo che, durante gli esami di Stato, alcuni docenti chiudono un occhio su chi copia. Di fronte a dati del genere si può essere un po’ più ottimisti. Si spera che anche i politici aprano gli occhi e si rendano finalmente conto che una politica scolastica rigorosa non li penalizzerebbe sul piano del consenso. La maggioranza degli Italiani esige che la società migliori ed è consapevole che il miglioramento deve obbligatoriamente passare dalla scuola: ancora oggi una scuola seria è in grado di garantire molto, a partire dall’affermazione sul piano professionale. E garantisce anche che la futura opinione pubblica sia più consapevole e in grado di pensare con la propria testa.
Una scuola più esigente, infine, costituisce la più efficace prevenzione dell’analfabetismo funzionale, insieme ad una rigorosa selezione dei futuri docenti. Fino a qualche decennio fa, il nostro Paese ha conosciuto percentuali di analfabetismo, non solo funzionale, ben più drammatiche rispetto a quelle dei nostri tempi. Tuttavia, coloro i quali sperimentavano sulla propria pelle questa menomazione culturale esprimevano spesso una consapevolezza civile e aspettative per il futuro non sempre riscontrabili ai giorni nostri. Aspettative espressione di un’umanità che attendeva dal futuro, soprattutto per i loro figli, un ben diverso destino rispetto a quella che era stata la loro esistenza sfortunata e ingiusta. Gente che aspirava ad una scuola finalmente di massa che garantisse opportunità per i propri figli che ai padri, appunto, erano state negate. È triste vedere come queste aspettative siano sempre più demolite e che una conquista come quella della scuola finalmente aperta a tutti venga sempre più sprecata. Dobbiamo finalmente prendere atto che una scuola che omologa verso il basso avrà sempre più difficoltà a far veramente emergere il merito di chi parte da condizioni svantaggiate. E’, quindi, destinata a diventare, come un tempo, una scuola classista. Siamo ancora in tempo ad invertire la rotta. Ci vuole più consapevolezza (anche nella scuola) dei rischi che stiamo correndo e, finalmente, un maggiore rispetto per chi fece in passato enormi sacrifici per farci vivere, tutti, in un Paese più giusto.
di Valerio Vagnoli, membro del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità