Porto il velo, adoro i queen, accolto dal pubblico a Bologna per la prima volta lo scorso giovedì 16 marzo presso il cinema teatro Galliera, è molto più della sequenza videografica della vita di tre di un milione e 700.000 persone di fede musulmana residenti in Italia, è il tentativo di smontare uno ad uno i preconcetti costruiti attorno a queste figure portando sullo schermo alcuni esempi delle storie di vita del genere più stereotipato, quello femminile.
Il titolo, tratto dall’omonimo libro di Sumaya, incornicia il lungometraggio, costruito dalla regista Luisa Porrino, attraverso una lenta e continua crescita di tensione: partendo dal racconto delle vite delle donne giunte in Italia dalla Palestina, dalla Tunisia e dalla Siria, si è infatti instaurato solo nell’ultimo capitolo della narrazione un discorso sulle conseguenze devastanti e deludenti dei moti della primavera araba.
Il pregiudizio sul velo
Sin dalle prime immagini, invece, la regista ha scelto di svelare la contrapposizione tra le autonome scelte di vita delle protagoniste e i pregiudizi che limitano le stesse per il semplice fatto di portare il velo ed essere musulmane.
L’hijab, come rivela il suo stesso significato, rappresenta anche nel docufilm, una barriera di separazione posta davanti ad un essere umano: in questo caso tra le donne musulmane, che dovrebbero essere il simbolo di un miscuglio di culture e gli occidentali che interpretano le loro scelte di vestiario, applicando i codici errati della costruzione mediatica. È quest’ultima, infatti, a fare del velo un simbolo di costrizione, così come si nota sfogliando le pagine della cronaca che riportano solo i casi negativi e ignorano d’altra parte chi ha scelto autonomamente di esprimere la propria fede.
Gli esempi
Tra queste vi sono Sumaya, attivista per i diritti umani e mamma nel tempo libero, Takoua, promettente fumettista e Batul, medico psichiatra: personalità forti e d’eccellenza che la regista ha scelto anche per la loro caparbietà nel mantenere sempre il velo e non cedere allo sguardo giudizioso di chi fonda il suo pensiero su una rappresentazione parziale.
A dimostrare ciò, tra le altre è Takoua, che affronta le sensazioni di scherno mantenendo il suo sorriso e mette alla luce con ironia nelle sue vignette alcuni degli stereotipi attribuiti dalla gente a chi indossa il velo:
Le difficoltà per chi tiene il velo
Ma non è facile come sembra fare questa scelta. A partire dalla sfera dell’amicizia a quella dell’amore, passando per quella fondamentale del lavoro essenziale per ottenere l’autodeterminazione qualunque sia la propria religione, queste donne devono mettere continuamente sulla bilancia il bisogno di essere se stesse e la pretesa altrui di snaturarle dei propri simboli. “Se infatti per una donna in Italia è difficile trovare un lavoro” – come afferma una delle protagoniste – “per una donna musulmana lo è il doppio” e non sono i rari i casi in cui questo viene chiuso nell’armadio per non rinunciare ai propri progetti di vita.
Il diritto di cittadinanza
Il nodo centrale di Porto il velo, adoro i Queen è però, come affermato dalla regista subito dopo la proiezione, l’assenza di una legge che dia la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana anche a chi è nato sul territorio ma non ha genitori di origini italiane, così come le donne in questione. Uno ius sanguinis, dunque, che andrebbe modificato per fare spazio allo ius solis, che stando agli ultimi aggiornamenti sembra avere nel Parlamento italiano la maggioranza necessaria per modificare la vecchia legge. Se così fosse, questo potrebbe segnare il primo passo per creare quel ponte tra il mondo dell’Occidente e il mondo dell’Oriente che sulla falsariga di una comunanza tra islamismo e terrorismo jihadista sembra essere oggi impossibile.
Il secondo passo è comprendere, seguendo le parole di Sumaya, che chi compie determinate azioni è spronato a monte da un’idea sbagliata che automaticamente conduce a conseguenze sbagliate: non tutti i musulmani sono infatti dei terroristi ma esempi di donne musulmane libere e decise come quelle scelte da Luisa Porrino, rappresentano solo una parte di una comunità che deve essere conosciuta a fondo prima ancora di essere giudicata.
Maria Grazia Sanna
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