Quello che i curdi dicono

di Valentina Tonutti

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Sono la popolazione che sta aiutando le forze americane a contrastare l’IS, un ponte levatoio tra Occidente e Medio Oriente, sono il popolo islamico che sta contrastando con maggior fervore l’Isis. Ma chi sono e cosa pensano gli abitanti del Kurdistan dell’ultima crisi in Iraq?

Lo abbiamo chiesto a Rete Kurdistan – la Rete italiana di solidarietà con il popolo curdo – e a Yilmaz Orkan, rappresentante in Italia, a Roma, del Congresso Nazionale Kurdo (dove è presente anche il Pkk).

Quando si parla di Kurdistan non si sta parlando di uno Stato vero e proprio: in Kurdistan non sono mai state riconosciute le aspirazioni autonomistiche della popolazione e non esiste una delimitazione ufficiale dei confini, ma esiste un territorio – un altopiano situato nella parte nord orientale del Medio Oriente, in un’area contingente la Turchia, l’Iraq, l’Iran, l’Armenia e la Siria – e una popolazione, il popolo curdo.
Una nazione, quindi, da centinaia di anni composta da musulmani (curdi, turchi), cristiani (armeni, assisi, caldei), ebrei e yazidi hanno e che oggi occupa un territorio distinto tra Kurdistan regionale -una regione autonoma dello stato iracheno nata all’indomani dell’intervento occidentale in Iraq che ha portato al rovesciamento di Saddam Hussein- e l’idea di nazione curda che comprende tutti i curdi, che vivano a nord (Turchia), ovest (Siria), est (Iran), e sud (Iraq). Bandiera e Presidente appartengono al primo,  ma questo non ha mai soddisfatto i curdi della Turchia e degli altri paesi che non vedono riconosciuti loro i propri diritti fondamentali, primo fra tutti quello del riconoscimento della loro lingua madre.
L’indipendenza di questo stato-nazione non rientra più nelle richieste del movimento di liberazione kurdo visto che è stata superata dall’idea di confederalismo democratico: una federazione tra le regioni curde incluse nei vari paesi che possa godere di un’ampia autonomia e nella quale vengano garantiti i diritti e la libertà fondamentali, inclusa quella di poter decidere come amministrare le proprie risorse, la propria vita sociale, la propria lingua e il proprio futuro in convivenza pacifica con le altre componenti etniche e linguistiche della regione.
Il risultato di questo processo di democratizzazione sarebbe auspicabile non solo per il popolo curdo ma per l’intero Medio Oriente, un puzzle etnico-religioso costantemente in conflitto che probabilmente ha bisogno di ancora qualche pezzo per risultare completo e democratico, soprattutto a fronte della nuova ondata di attacchi e omicidi portati avanti da ISIS.

In Occidente si parla di IS – lo Stato islamico di al-Baghdadi– da neanche due mesi, ma nella zona del Rojava sta andando avanti da due anni un conflitto che vede coinvolte le “nuove” cellule di Al-Qaeda e l’Ypg – la forza armata curda.
A partire dal luglio 2012 –quando Rojava proclamò la sua personale rivoluzione democratica non schierandosi né con il regime di Assad (da tempo persecutore dei curdi siriani) né con la cosiddetta opposizione dell’esercito siriano libero sostenuta dagli stati occidentali– la regione autonoma del Rojava è finita nel mirino dei gruppi islamici jihadisti gravitanti nell’opposizione.
Secondo il pensiero jihadista chiunque esprima una diversità culturale è un nemico da attaccare, quindi hanno incominciato ad attaccare la popolazione civile della regione anche grazie al supporto economico e logistico apportato da Arabia Saudita, Qatar e Turchia.
I gravi massacri che sono riusciti a perpetrare nella zona del Rojava hanno provocato la risposta delle forze armate del YPG, le forze di difesa del popolo i cui sforzi sono stati ignorati dal mondo occidentale, nonostante le denunce a livello internazionale, a riprova della completa immobilità delle autorità mondiali che si accorgono dell’effettiva minaccia delle bande di ISIS soltanto nel momento in cui gli attacchi minacciano i loro interessi.
Le forze di autodifesa del popolo continuano a respingere i jihadisti, il mondo sta a guardare dietro lo schermo e gli USA continuano ad inviare raid aerei e presunti aiuti umanitari alla popolazione civile che poi, nell’effettivo, non arrivano mai.
Sul monte Sinjar 15.000 curdi continuano a vivere rifugiati nel loro isolamento, in condizioni pessime e col timore giornaliero di essere rintracciati, in trappola nel loro stesso territorio. A conferma del superficiale interesse europeo e americano nel recare un effettivo “aiuto umanitario” l’UE non ancora inserito ISIS nella lista dei terroristi, dove invece troviamo il PKK – le cui forze armate (come HPG) sono attualmente attive nel contrastare lo Stato Islamico.
Le altre forze impegnate sul fronte sono per la gran parte del YPG, che ha permesso l’apertura del corridoio umanitario e la messa in salvo di parte della popolazione yezida in fuga, e le forze congiunte nelle quali fanno parte tutte le varie forze peshmerge (PUK, PDK). Nonostante i peshmerga si trovino ad utilizzare l’equipaggiamento migliore le loro unità si sono inspiegabilmente ritirate durante l’attacco di IS alla comunità curda di Singal, pertanto la popolazione yezida non confida più nel loro aiuto.
Ma i peshmerga non sono i soli a creare diffidenza tra i rifugiati. La situazione dei civili sul territorio – specialmente sul monte Sinjar – è tragica, e non bisogna aver difficoltà nell’identificare ciò che sta succedendo come una vera e propria pulizia etnica. Nonostante i discorsi dei grandi capi di stato e il cuore mostrato ai riflettori della stampa, gli aiuti che arrivano sono miseri se non che nulli: dopo i primi voli di ricognizione sul monte Singal gli Stati Uniti hanno deciso di fermarsi perché si aspettavano molti meno sfollati, riporta Yilmaz Orkan.

« Le parole delle potenze occidentali suonano ipocrite se non vengono seguite da un radicale cambio di politica: dispiacersi per le vittime civili e continuare la politica di destabilizzazione nelle regione che le provoca non porterà a fermare la pulizia etnica in corso. Si dirà: ma intanto si è deciso di mandare armi ai curdi! Non è un cambio di politica: armare una parte in funzione dei propri interessi è il proseguimento di una politica neocoloniale che punta altresì a non subire perdite direttamente, ma a lasciare il “lavoro sporco” ad altri. Se si ascolta la popolazione, si capirà che questa vuole una pace duratura e i propri diritti, dopo decenni di oppressione e guerra

Una presa di posizione precisa da parte di un popolo la cui religione predominante è musulmana di rito sunnita ma che non si vuole chiaramente arrendere davanti agli obiettivi estremisti della stessa.
Lo Stato islamico è una forza composta da militanti ideologici reclutati in tutto il mondo, e non una forza locale, tendono a precisare. Le potenze petrolifere li hanno armati sostenendo i propri interessi e certamente, il richiamo del “nuovo califfato” ha un’influenza su alcuni settori sunniti che si sono sentiti messi da parte e che aspirano a ritornare determinanti nella politica della religione ma anche questa è una conseguenza di una politica miope e “confessionale”: quando per governare si utilizzano le divisioni etniche e religiose invece di trovare soluzioni che consentano la convivenza pacifica è più facile che si sviluppino e prendano piede gruppi fondamentalisti che intendono prevalere su tutti gli altri.

Qual è, dunque, il più grande auspicio del popolo curdo? La pace, e la possibilità di vivere liberamente, con la garanzia dei propri diritti che consenta a questo popolo martoriato, diviso e sistematicamente oppresso di esistere senza doversi continuamente difendere, come dovrebbe essere possibile a ogni essere umano e a ogni popolo.

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