Alessandro Sivelli
La legge del 2000 non si applica al mondo dello sport amatoriale, che rimane, sostanzialmente, un Far West. L’azione disciplinare scaturisce da un procedimento penale e questo genera problemi sui tempi e riguardo al diritto al giusto processo in quanto le prove verrebbero raccolte solo dal PM, pregiudicando il diritto al contraddittorio
Riassumo il contenuto della relazione da me esposta il 29 novembre scorso al convegno sul doping organizzato a Modena dall’Assessorato Politiche per la Salute della Regione Emilia-Romagna. Avendo avuto occasione di confrontarmi nella mia professione di avvocato penalista con la legislazione antidoping, penale e disciplinare, nel mio intervento ho tentato di evidenziare alcuni aspetti normativi che, a mio modesto avviso, meritano una riflessione e, forse, anche un intervento correttivo del legislatore.
La legge 376/2000 (“disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping”) ha certamente riempito un vuoto legislativo che aveva provocato numerosi contrasti interpretativi, in particolare sulla possibilità di sanzionare penalmente il cosiddetto doping autogeno, ma ha privilegiato la tutela della correttezza della competizione sportiva rispetto alla tutela della salute.
La norma penale (art. 9) sanziona, infatti, colui il quale “procura, somministra, assume, o favorisce” l’utilizzo di farmaci dopanti, solamente se queste condotte sono finalizzate “ad alterare le prestazioni agonistiche degli atleti o modificare i risultati dei controlli” antidoping.
È dunque evidente che, ad esempio, non vengono sanzionati coloro i quali assumono sostanze dopanti per finalità diverse, cioè non partecipando a competizioni agonistiche: penso ai giovani frequentatori di palestre, a coloro, sempre più numerosi, che partecipano a competizioni amatoriali, ai praticanti il body building, attività che non può certo essere equiparata ad una competizione agonistica, tanto da non essere riconosciuta da federazioni o associazioni affiliate al Coni.
Il doping amatoriale non è solo molto diffuso, ma è anche molto più pericoloso perché le sostanze vengono assunte al di fuori di qualsiasi controllo medico, a differenza degli atleti professionisti, i quali vengono controllati e monitorati da medici sportivi.
La norma non sanziona neppure colui il quale cede le sostanze a questi sportivi (si fa per dire) amatoriali, salvo non si dimostri che il cedente svolga una vera e propria attività di commercio, che, secondo la giurisprudenza, presuppone un’attività organizzata e continuativa, spesso difficile da provare.
Nella mia relazione ho evidenziato anche l’incidenza delle indagini penali nei procedimenti disciplinari a carico degli atleti professionisti ed anche le problematiche che ne conseguono. Gli accertamenti svolti dal magistrato penale costituiscono infatti anche fonte probatoria nei procedimenti disciplinari.
A differenza dei procedimenti disciplinari che si instaurano a seguito di un controllo antidoping rivelatosi positivo, il procedimento disciplinare che trova origine e fonte probatoria in un’indagine penale presenta numerose problematiche.
Mentre nel caso di positività accertata il procedimento disciplinare può essere definito a distanza di poco tempo dall’accertamento della violazione, nel caso in cui l’accertamento dell’illecito consegua all’indagine penale, inevitabilmente anche il procedimento disciplinare deve seguire i “tempi” del procedimento penale. La fase delle indagini preliminari può durare mesi e, prima che si giunga ad un giudicato, possono passare anni dall’inizio dell’indagine e dalla commissione dell’illecito (l’indagine della Procura di Padova di cui hanno dato notizia i media nei confronti di alcuni ciclisti professionisti e di un noto medico sportivo è iniziata tre anni fa. Non si è ancora conclusa e gli atti di indagine non sono stati depositati).
Ma anche qualora la Procura della Repubblica trasmettesse all’autorità disciplinare competente le fonti di prova acquisite, l’autorità disciplinare si troverebbe a dover giudicare un atleta sulla base di atti d’indagine svolti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria (cioè da una parte processuale), atti di indagine che spesso non sono univoci (prove indiziarie) e che comunque devono essere vagliati nel contraddittorio del dibattimento, nel rispetto del principio del giusto processo.
È notorio, infatti, che il giudizio penale si fonda esclusivamente sulle prove raccolte nel dibattimento. Potrebbe accadere, ed anzi è accaduto più volte, che le fonti di prova raccolte dal pubblico ministero, che hanno giustificato e supportato la richiesta di rinvio a giudizio, vengano successivamente smentite nel contraddittorio del dibattimento, con la conseguenza che l’atleta imputato, rinviato a giudizio, venga prosciolto.
Quali prove, dunque, può/deve utilizzare la giustizia sportiva? Quelle raccolte dal pubblico ministero nella fase delle indagini o deve attendere il dibattimento per acquisire le prove raccolte nel contraddittorio delle parti? Possono essere utilizzati gli estratti riassuntivi delle intercettazioni telefoniche trascritte dalla polizia giudiziaria o solo le trascrizioni integrali delle conversazioni effettuate da un perito in contraddittorio delle parti?
Possono essere utilizzate le dichiarazioni rese da una persona informata sui fatti alla polizia giudiziaria o le dichiarazioni eventualmente diverse che la stessa persona, in qualità di testimone, ha reso nel dibattimento?
Se la giustizia sportiva si limitasse ad utilizzare le prove raccolte dal pubblico ministero senza attendere l’esito del procedimento penale potrebbe sanzionare atleti che all’esito del processo penale potrebbero essere prosciolti pregiudicandone ingiustamente per sempre la carriera sportiva. Mi rendo anche conto che, se il procedimento disciplinare dovesse attendere l’esito del procedimento penale, potrebbe accadere che un atleta che ha assunto sostanze dopanti continui a gareggiare e l’eventuale sanzione verrebbe applicata quando ormai l’atleta ha terminato la propria carriera.
Il problema non è certo di facile soluzione, ma esiste e va risolto senza pregiudicare le garanzie difensive all’esigenza di rapidità dell’accertamento disciplinare.
Alessandro Sivelli
Avvocato esperto di assistenza e difesa di colleghi e professionisti davanti ai competenti Consigli di disciplina