Figli dello stesso padre: intervista a Francesco Milanese

di Claudia Fallica

milaneseArtegna, 20 novembre 2013, Nuovo Teatro Monsignor Lavaroni. Francesco Milanese mette in scena il suo recital, “Figli dello stesso padre”.

Spettacolo intenso, drammatico, sentito più che recitato, che ha commosso tutti in occasione della Giornata Internazionale dei diritti del fanciullo, data scelta non a caso.

Francesco Milanese, infatti, ha una lunga esperienza nel campo dell’infanzia e ha ricoperto vari ruoli nel campo del sociale: specialista in Istituzioni e Tecniche di Tutela  dei diritti dell’Uomo, Presidente dell’Istituto per i diritti e l’educazione (IDeE), consigliere onorario presso la sezione minorenni della Corte d’Appello di Trieste, membro del consiglio direttivo dell’ INDIMI (Istituto Nazionale per i Diritti dei Minori), e membro del Comitato Scientifico del CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) per il 2009-2010.

Inoltre, 1996 fino al 2008 ha ricoperto il ruolo di Pubblico Tutore dei Minori della Regione Friuli Venezia Giulia,  mentre si occupa ancora oggi di mediazione familiare.

Sono proprio le storie di vita che Francesco Milanese ha ascoltato in questi anni che lo hanno spinto a mettere in piedi questo recital, che si impone al pubblico con l’esigenza di raccontare alcune realtà del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, che anche se forti, non vanno taciute. Sono storie di violenze, di abbandoni, di fuga dalla guerra, di disagi familiari, di emarginazione.

Lo spettacolo nasce nel 2010, quando grazie anche alla collaborazione esperta di Michele Pucci, musicista ma anche da sempre impegnato nel settore dell’infanzia e della didattica, comincia a prendere forma: ritmi incalzanti e suggestivi accompagnano e scandiscono una narrazione drammatica alternata a dialoghi dai tratti duri ed aspri, ma mai pietosi, organizzati in quattro ballate e quattro racconti, che restituiscono allo spettatore un senso di angosciante partecipazione.

I racconti seguono varie prospettive, e così gli adulti parlano di ragazzi o ai ragazzi, o sono proprio gli stessi giovani che rievocano la loro storia. Fra un racconto e l’altro le ballate si impongono in modo provocatorio, invitando gli adulti ad aprire gli occhi sul mondo dell’infanzia, scuotendo gli animi con toni aggressivi e  taglienti, ma mai patetici.

Le storie dei ragazzi vengono rievocate con un sapiente uso della musica, e delle luci, che conferiscono alle stesse intensità e drammaticità. Le storie non sono vere, ma  verosimili, e molto vicine a quelle dei ragazzi che ogni giorno Francesco Milanese ha incontrato nel suo percorso. Sono storie di vinti, ma non nell’animo, storie di ragazzi oppressi da una società che non sempre rivela il suo senso di giustizia e umanità, e che fanno spazio a temi intensi che indagano sul senso della legge, della fede,  storie che parlano di sesso e di violenza, in un botta e risposta che lascia in chi guarda un senso profondo di disagio e impotenza, e di commozione. Figli dello stesso padre, titolo inteso quasi come un interrogativo che allude alle differenze fra figli legittimi e naturali, fra mondo cristiano e mondo arabo, ma anche all’interno di una stessa società.

Messaggio di fondo che percorre tutto il recital è una critica nei confronti del mondo degli adulti, mondo troppo indifferente e distratto, un mondo ipocrita, che non si addossa le proprie responsabilità, ma anche un mondo violento e di oppressione. Il linguaggio provocante e dissacrante è un invito a guardare il mondo con gli occhi dei bambini, occhi a volte incapaci di vedere il male. Il mondo degli adulti è invitato a chiudersi in un rassicurante abbraccio, e a sostenere con convinzione l’idea di un futuro migliore da lasciare ai nostri figli.

Il signor Milanese mi ha concesso molto gentilmente un’intervista per Socialnews.it, nella quale racconta la passione che da sempre mette nel suo lavoro e come è nato e di cosa parla il recital Figli dello stesso padre. La riporto di seguito.

Sig. Francesco Milanese, la ringrazio a nome di Socialnews.it per averci concesso questa intervista. Complimenti per lo spettacolo, che ha riscosso molto interesse e molte adesioni.  Per capire chi è Francesco Milanese, parliamo un po’ del suo lavoro.

Di cosa si occupa  e quando nasce la sua attività nel campo del sociale?

Sono Mediatore familiare, consulente pedagogico per famiglie e genitori, formatore. Mi sono da sempre occupato di questioni sociali, sia in termini di volontariato che su un piano professionale. Ho iniziato con il servizio civile in Caritas poi con varie realtà occupandomi specificatamente di minori e famiglia.

 La mediazione familiare, insieme alla tutela dei diritti dei minori  è uno dei campi di cui si occupa. Com’è la realtà italiana da questo punto di vista?

La realtà italiana riguardo alla tutela dei minori ed alla promozione di politiche per la famiglia è assai arretrata, forse perchè c’è ancora in chi governa l’idea che le politiche sociali siano questioni legate al buon cuore e alla solidarietà. Io credo invece ci sia bisogno di competenza scientifica, economica e giuridica, essendo le politiche sociali di un paese moderno ed occidentale una delle questioni strategiche più delicate in quanto su di esse si gioca consapevolmente o meno, il senso stesso del sistema democratico.

 Qual è stato il caso per lei più difficile? Dal punto di vista emotivo, si è mai trovato in difficoltà? Pur essendo un professionista, è comunque un uomo. Quali sono le maggiori difficoltà legate al suo mestiere e come le ha superate?

Non si possono ascoltare le storie dei dolori degli altri senza avere un trasporto. Quello che è stato per me più difficile è scoprire l’ingiustizia che spesso le pubbliche amministrazioni producono per pigrizia, ignoranza o pregiudizio. Vede quando uno si trova di fronte ad un funzionario che gli dice: “ non serve che fai domanda tanto non hai diritto” si arrende…. ma è un errore! Un cittadino ha sempre diritto di fare domanda e una amministrazione ha dovere di rispondere motivando il diniego di un sostegno o di un servizio. Allora un cittadino può valutare se ricorrere o meno! Ma se non fa neppure la domanda? Resta vittima della pigrizia di chi non vuol lavorare. E questo è peggio che non poter aver accesso ad un servizio perché, come accade oggi, quel servizio nn ha più i soldi!

 Come il suo lavoro e la sua carriera hanno influenzato la sua vita privata? Pensa che le situazioni familiari che ha incontrato in questi anni le hanno fatto cambiare atteggiamento nei confronti della sua famiglia?

Alle volte esporsi è molto faticoso, ci sono situazioni delicate che inevitabilmente influenzano la vita privata e viceversa! Ma preferirei non parlarne!

 Parliamo del suo lavoro teatrale. Da quale idea nasce il recital “Figli dello stesso padre”?

La fine della mia esperienza di Tutore pubblico dei minori della Regione Friuli Venezia Giulia, durata dodici anni, è stata abbastanza traumatica. Avevo bisogno di trovare un modo per restituire dignità a quell’esperienza e voce a quelle storie. Ho scritto le storie perchè la forma del racconto mi permetteva proprio di comunicare il vissuto, l’emozione.

Quando nasce la collaborazione con il signor Pucci e quando le sue idee si concretizzano in questo spettacolo? Perché la scelta di questo titolo?

Conosco Michele Pucci da tempo e un sera gli ho chiesto di leggere le storie che avevo scritto per darmene una valutazione, un giudizio artistico. Gli sono piaciute e ne è nata l’idea di farne un recital. Lui mi ha aiutato moltissimo a tagliare, rendere essenziale il testo, trovare i ritmi giusti. Il titolo? Beh è una affermazione che ricorre in ben due storie: siamo eguali perchè Figli dello stesso Padre… sarà poi vero?

 Quale è il messaggio che vuole dare?

Sono diversi i messaggi, ma forse il principale è che non si possono riconoscere in astratto i diritti dei bambini, che cioè bisogna che gli adulti si mettano in ascolto reale della voce delle nuove generazioni.

Vede quando si dice che i bambini sono il nostro futuro si commette una grande ipocrisia. È l’adulto che ha il compito di dare un futuro alla generazione dei fligli. Guerra fame e ingiustizie disastri ambientali, povertà sono queste le cose che i nostri figli si troveranno in eredità dalla generazione degli adulti!  Dunque di chi è la responsabilità?

 Quando ha avuto la prova che il suo messaggio è stato recepito? Quale è stato a tal proposito il riscontro maggiore o l’episodio che le ha fatto capire che ha fatto presa sul pubblico?

Forse il riscontro  più forte a questo spettacolo è nell’emozione che il pubblico dice di aver provato.

Più di qualcuno mi ha detto di essersi commosso, e credo sia un buon segnale!

Ascoltando il suo recital lei appare molto coinvolto, spesso sopraffatto dai sentimenti, e a tratti combattuto su come gestire il rapporto con i co-protagonisti dei racconti.  Un esempio è la storia di Youssuf: scappato dalla guerriglia talebana solo con i vestiti che indossava, cercava rifugio in Italia, ma ha incontrato solo indifferenza e controversie legali, in quanto solo con un passaporto e documenti attestanti le persecuzioni si può ottenere lo status di rifugiato. Lei, impotente, chiede perdono a Youssuf, consapevole delle contraddizioni fra diritto e umanità. Sappiamo che questi racconti sono in parte veri, in parte verosimili. Nella vita reale, si è sentito mai impotente di fronte al diritto che pur rappresentava?

Il diritto non basta a tutelare i diritti. Non è un paradosso. Senza cultura asolto, relazione con le realtà non si possono affrontare davvero le situazioni e trovare la strada giusta per la reale promozione e tutela dei diritti.

Cosa è necessario invece perché il diritto possa coesistere in armonia con il senso di umanità e fondarsi sugli stessi presupposti?

Dicotomie, opposti e ambivalenze: il suo recital sembra condotto e percorso dallo scontro di eterni opposti, più o meno metaforici e figurati. Adulti e ragazzi, passato e futuro, buoni e cattivi, legge e fede, democrazia e ineguaglianze,  alba e tramonto, vita e morte, buio e luce, e poi ancora Caino e Abele, anche loro figli di uno stesso padre, ma uno buono e l’altro cattivo. Perché questa ambivalenza ricorre così frequentemente nel recital?

L’ambivalenza non è ambiguità e neppure relativismo! Noi viviamo da esseri imperfetti in questo mondo; possiamo tendere alla perfezione, ma non raggiungerla. L’ambiguità confonde i piani tra bene e male, e il relativismo li rende indifferenti, io credo che bene e male siano invece ben diversi però intrinsecamente coesistenti nella natura umana. C’è un messaggio antropologico, prima ancora che religioso, nella parabola evangelica del grano e della zizzania. Nessun contadino lascerebbe crescere insieme due piante antagoniste come invece fa il Signore in questa parabola, perché aspetta il tempo del raccolto. Noi viviamo ancora in una dimensione in cui bene e male ferocia e umanità convivono. Possiamo scegliere per noi stessi quale delle due alimentare se riusciamo a conoscerle, ma non potremo mai sradicarle dal mondo.

Il rapporto fra adulti e ragazzi. “Siamo noi la traccia del percorso: se siamo  smarriti perché dovrebbero seguirci?” Questa frase racchiude il senso finale del suo lavoro teatrale ma anche un messaggio basilare del suo impegno sociale. Sulla base di queste parole, qual è un consiglio che si sente di dare al mondo degli adulti e al mondo dei ragazzi che apporti vicendevolmente una miglioria?

Gli adulti  hanno la responsabilità del mondo che lasciano ai figli. Hanno la responsabilità delle ingiustizie delle guerre dei disastri ambientali e sociali in cui viviamo. Purtroppo è comune sentire invece, che questi mali siano provocati da altri, che siamo tutti allo stesso modo vittime!

Io credo che questo sia un po il senso di smarrimento che noi abbiamo come generazione adulta e che comunichiamo ai giovani. Invece a me pare sia doveroso assumersi la responsabilità di guida, che non significa fare al posto di altri, ma indicare una strada, dare obiettivi, motivazioni, fiducia…

Cosa vorrebbe dire che non le ho ancora chiesto: quale sarebbe la domanda cui in un’intervista vorrebbe rispondere e come risponderebbe?

Forse la domanda che manca, riguarda non tanto il cosa faccio, ma il perché.  E allora la risposta mia è semplicemente : perché mi fa stare bene! Vede non è detto che incontrare il dolore degli altri, combattere le ingiustizie, soccorrere, siano lavori facili, ma neppure che siano privi di una soddisfazione esistenziale molto più profonda! Ecco questo vorrei dire in conclusione, non si vive a caso. Dunque è necessario dare un senso a questo vivere. E per me il senso è questo.

 La ringrazio per la collaborazione. Vuol fare un saluto alla redazione di Socialnews.it?

Certo! Se rispondo di no Max mi radia….

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