La sottile linea rossa

Igor Jelen

Mentre, fino ad un certo punto, soltanto gli apparati strutturati erano in grado di utilizzare armi con una certa potenza di fuoco, oggi chiunque – o quasi – può dotarsi di armi con le quali poter svolgere un effetto distruttivo a vasta scala.

Dal momento stesso in cui hanno cominciato a vivere insieme, gli esseri umani hanno anche dovuto confrontarsi con il rischio che ciò significa, in particolare il rischio di incomprensioni, competizione e, infine, il conflitto, in tutte le sue multiformi manifestazioni. Da allora, si può dire che la guerra ha rappresentato la preoccupazione principale per i popoli e una vera e propria sfida per scienziati, geografi e politici: tutti impegnati a comprendere, a trovare soluzioni, ma anche ad usare, per i propri obiettivi, quello che, a seconda dei casi, viene considerato uno strumento di difesa, la più efficace delle armi per acquisire potere, un problema ovvero la peggiore tre tutte le tragedie. In realtà, anche uno strumento pericoloso, oltre che per chi lo subisce, per chi lo usa. Infatti – come gli esseri umani scoprono ben presto a proprie spese – la guerra e le armi che servono per combatterla sviluppano un “feedback” che colpisce, in vari modi, anche i loro artefici, condizionando evoluzioni, tecnologie, valori e modi politici, in tempi e con modi diversi.
Anche e soprattutto per questo, da allora, il tentativo di ridurre la guerra a qualche cosa di controllabile – tramite “regole” da elaborare e da imporre mutuamente – non produce risultati apprezzabili, tanto che, inevitabilmente, ogni nuova generazione si ritrova quasi costretta ad affrontare, daccapo, il problema. Ma questo fino ad un certo punto, fino a quando, cioè, la tecnologia crea le condizioni per la MAD – mutual assured destruction – ovvero la guerra potenzialmente distruttiva per tutti, oltre che per le vittime, per i carnefici, innescando un’escalation che porterà progressivamente ad una situazione di rischio per tutta l’umanità e per l’intero pianeta. Da quel momento, la guerra perde il significato originario di strumento di difesa e di offesa per diventare qualche cosa di diverso e, se possibile, di più devastante. Una soglia che viene raggiunta molto tempo prima dell’invenzione delle armi nucleari, con le armi di distruzione di massa elaborate nelle varie epoche della modernità, e che viene oggi ulteriormente superata, in seguito alla diffusione di ulteriori innovazioni belliche, fino a far diventare quella soglia qualcosa del tutto insignificante. Si tratta di armi sempre più accessibili e sempre più – paradossalmente – friendly, facili da usare, oltre che da parte di eserciti ed apparati statali, anche da parte di gruppi e di individui senza particolari capacità organizzative. Mentre, fino ad un certo punto, soltanto gli apparati strutturati erano in grado di utilizzare armi con una certa potenza di fuoco, oggi chiunque – o quasi – può dotarsi di armi con le quali poter svolgere un effetto distruttivo a vasta scala. Da quel momento, la guerra perde un senso di “continuazione della politica con altri mezzi”, almeno in termini di politica intesa come strumento usato dagli Stati: nessuno può colpire nessuno senza mettere a rischio anche se stesso, ovvero senza rischiare l’autodistruzione. Un fatto che predispone alla diffusione di un’idea di guerra senza campo di battaglia, senza alcuna distinzione tra eserciti e schieramenti, che colpisce in ugual modo donne e bambini, civili e militari, linea del fronte e retrovie. Un modo di fare la guerra che, soprattutto, porta al superamento di una situazione di monopolio della forza che fino ad allora qualificava gli Stati sovrani come tali (secondo Hobbes e Schmitt), che crea le possibilità per chiunque (anche per fazioni facilmente manipolabili) di ricattare e di minacciare intere popolazioni ed intere civiltà. Un salto di scala alla base di una nuova stagione per le istituzioni della politica, che cercano di reagire a questo stato di fatto avviando una serie di iniziative, e della società internazionale che ne deriva una serie di movimenti civili che si sviluppano sotto la soglia della politica ufficiale, fino ad elaborare una nuova consapevolezza della sicurezza e della guerra. Un lavoro che significa lo sviluppo di proposte e normative, di sistemi di controllo e di una serie di trattati (di “non proliferazione”, di “limitazione” delle armi, ecc.), in genere di una certa istituzionalizzazione della Comunità internazionale, fino al tentativo di elaborare qualche forma di “Governo” sovra/ statuale. Una tendenza che, tuttavia, successivamente alla caduta del muro di Berlino, con la nuova frammentazione indotta dalla globalizzazione, rischia di invertirsi, degenerando in un’impressionante moltiplicazione di attori politici, con conseguente rischio di nuove proliferazioni. Un nuovo scenario nel quale la guerra tende a manifestarsi in modo ancor più incontrollabile, a volte in modo del tutto inspiegabile. A volte si tratta di guerre civili, a volte di esplosioni di violenza senza alcun senso, a volte di massacri imprevedibili che riportano l’umanità ad una fase primitiva, che sembrava essere stata definitivamente superata. A volte, assume forme inaspettate, quasi si trattasse di una sorta di tragico equivoco, scatenando guerre variamente definite come asimmetriche, “a bassa intensità”, più spesso effetto di qualche “gioco” di geo-economia. A volte, invece, si tratta di guerre condotte da apparati che definiscono le stesse come “giuste”, quasi fossero delle operazioni di polizia internazionale, condotte da qualche associazione di Stati che ambiscono a rappresentare intessi più vasti e anche l’intera comunità civile. Un’evoluzione che apre nuovi scenari, in realtà un fatto che sembra ripetersi periodicamente, con risultati ambigui, al di là delle intenzioni di contribuire a qualche manovra di “state building”, “peace keeping” o di esportazione della Democrazia: guerre che sembrano strumentali a qualche obiettivo trasversale fino a delineare – secondo i critici “a priori” – addirittura funzioni di sistema, di cui gli ordinamenti attuali, cioè, non potrebbero fare a meno. È il caso della possibilità di scaricare arsenali di missili, di collaudare nuovi dispositivi bellici, o anche di svolgere semplicemente esercitazioni che, condotte in patria, costerebbero troppo e che allora converrebbe collocare, poniamo, tra le desolate e splendide montagne dell’Afghanistan o nei paesaggi desertici dell’Iraq, dove le bombe che esplodono hanno un impatto che viene giudicato trascurabile, che, anzi, neppure viene considerato. Tra tutte le dietrologie possibili, il sospetto è lecito se si pensa che la guerra “giusta” sembra manifestarsi con un cadenzamento caratteristico che fa pensare ai tempi di obsolescenza di sistemi di armi molto sofisticati (4-6 anni), lo smantellamento delle quali richiederebbe molte più spese di quanto costi effettivamente il loro impiego predisposto su qualche scenario – presumibilmente qualche “Stato cattivo”, “rogue state”. In realtà, piuttosto che dietrologie, una nuova teoria della guerra: si tratterebbe delle cd. cause “insider”, le più pericolose, perché difficili da riconoscere, quelle che alimentano la guerra “in sé”, al di là delle coperture e delle cause reali, immanenti o no, dei casus belli o delle cause materiali e strutturali (petrolio, acqua, ecc.), e altre ancora che i geo-politici elaborano nei vari scenari possibili, compilando liste interminabili. Un esercizio di distinzione a volte accademico, che si arricchisce ogni giorno di nuove definizioni, tra “peace enforcing” e “confidence building”, “readiness” e procedure di ingaggio, innovazioni tecnologiche e sviluppo di armi non letali (una definizione, quest’ultima, paradossale). Una teoria che si aggiunge alle altre che il repertorio delle teorie della guerra mette a disposizione – tra realisti, pacifisti e neo-illuministi. Interpretazioni agli estremi di una serie di posizioni possibiliste, avversate tanto dai “professionisti del cinismo” che – in un altro contesto – dagli idealisti di ogni fazione, che ne hanno ribrezzo come in genere si ha ribrezzo per i compromessi firmati con “il sangue degli innocenti”. Teorie che definiscono la guerra come – semplicemente – uno tra i tanti fenomeni umani, risultato di errori e di cattiva volontà (una sorta di “errore etico”) e anche di semplici incomprensioni, che sarebbe possibile regolare, fino a – progressivamente – creare le condizioni per il suo esaurimento e per la sua definitiva espulsione dal repertorio delle esperienze umane (perché regolare la guerra è il primo passo per limitarne l’uso, come scrive M. Walzer, con un ragionamento che esprime una certa ingenuità illuministica). In realtà, proprio la modernità (con tutte le sue contraddizioni) dimostra che le Democrazie – e gli Stati di diritto, fondati su qualche idea di giustizia – sono anche i sistemi più solidi, garantendo, spesso, l’evoluzione pacifica di interi scenari (anche perché le Repubbliche tra di loro non si fanno la guerra, come immagina I.Kant). Certamente, la teoria “critica” non offre soluzioni pronte e preconfezionate. Essere consapevoli del problema è già un passo nella direzione giusta, ma questo fatto non serve molto come aiuto per i popoli che stanno subendo qualche sterminio. In realtà, nulla vieta ai “cattivi”, nell’attesa che la società civile globale possa svilupparsi fino al punto di essere abbastanza forte da dare “una risposta alla guerra” (M. Kaldor), possano impadronirsi del potere e fare a pezzi i buoni, magari utilizzando, oltre che armi di distruzione di massa, le loro stesse armi ideologiche – come qualche dittatore di oggi che continua a propagandare se stesso come una sorta di genio incompreso. Un discorso frustrante e un ragionamento che potrebbe procedere all’infinito, per poi tornare al punto di partenza. Sembra che nulla, in questo ambito, possa significare qualche riferimento per stabilire un criterio oggettivo – fuori dalla storia e dalla geografia – che possa funzionare come base di legittimazione, perché qualcuno prenda delle decisioni: la guerra giusta resta qualche cosa di indefinibile. In realtà, come per le armi, anche le filosofie generano dei feedback, così che, proprio nel momento di massima confusione in cui sembra degenerare il pensiero moderno (ormai post-moderno), si diffondono nuove prassi. Nuovi criteri di legittimazione, di cui Obama sembra proporsi come nuovo “apostolo”, forse convinto di essere l’unico titolato in questa missione: la teoria della superiorità etica della Democrazia e quindi la possibilità di usare la guerra contro i non democratici. Un criterio per cui gli unici Stati legittimati a fare la guerra sarebbero quelli definibili in termini di Democrazia funzionante, dotati di un sistema di controlli “dal basso”, di merito e di politica, interni ed internazionali, articolati sulla base dei principi sacri di “balance of power” e di “segregation of duties” (ovvero i principi della buona “governance”). Una condizione che le non-Democrazie – a volte dittature mascherate da false Democrazie o da “managed Democracy”, “Democrazie guidate” – non possono accettare, citando argomentazioni e contro-deduzioni, come Putin ha lasciato intendere con la sua recente lettera al NYT: i principi che legittimano la Democrazia funzionante sono difficilmente dimostrabili, ovvero la Democrazia è un lusso che non tutti possono permettersi. Un fatto che vale, in particolare, per gli ordinamenti all’inizio di un ciclo di democratizzazione, troppo fragili per aprirsi internamente e verso l’esterno, per non essere vittima di manovre dei predatori e dei pirati dellageo-politica. Un fatto innegabile: lo scenario internazionale ha bisogno di regole o, almeno, di punti di riferimento. Così, anche per l’uso delle armi di distruzione di massa: uno standard che ponga automaticamente al di fuori della legalità e della legittimità, che definisca il dittatore che usa queste armi contro la propria popolazione (un Presidente democratico non potrebbe per definizione mai farlo), in modo sistematico e deliberatamente letale, come strumento di politica, come il “male” che merita di essere colpito e distrutto. Un percorso incerto e tortuoso, che si sviluppa tra le manipolazioni dei media e della comunicazione internazionale, sulla base di una definizione che assume altre definizioni (un circolo vizioso), che intende stabilire cosa sia una Democrazia funzionante, chi sia legittimato a fare la guerra e chi no. Un criterio applicato in Bosnia (dopo Srebrenica), Kosovo (dopo Ra’ak), Iraq (se si pensa che, comunque, Saddam aveva usato il gas contro le popolazioni curde a Halabja), e che verrà usato, forse, oggi in Siria, che tende a stabilizzarsi in regola, fino al punto di elaborare una nuova teoria della guerra giusta e anche doverosa. Ci vorrà molto tempo – in termini di geo-politica, quindi di sangue, violenza, morte e devastazione – per verificare se questo fatto possa diventare uno standard, perché vengano codificate delle procedure, perché non degeneri in qualche cosa facile da manipolare, per esempio che qualcuno, una volta apprese le regole del gioco, possa predisporre ad arte delle prove o delle circostanze. Un nuovo spartiacque della politica contemporanea, in realtà una “linea rossa” molto sottile, a tratti invisibile, che, alla fine di un gioco di interpretazioni, rischia di coincidere nuovamente con qualche cosa di arbitrario, e di far regredire il mondo ad una condizione primordiale.

Igor Jelen
Professore associato di Geografia Politica ed Economica, Università degli Studi di Trieste
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

Rispondi