La scommessa siriana

Alessandro Politi

La Russia deve giocare tutte le carte della diplomazia creativa perché ha poco altro in mano e gli Stati Uniti sono costretti a giocare con l’occhio sul tassametro del proprio fiscal cliff.

La Siria che conosciamo è nata da una scommessa sin dai tempi della civiltà di Ebla (3.000 a.C.): è possibile creare un’entità forte e ricca lontano dal mare e dai grandi fiumi (Nilo, Tigri, Eufrate) che hanno dominato per secoli la storia di quel che oggi chiamiamo Medio Oriente? La risposta, come per le successive entità politiche precedenti all’attuale Israele è sì, ma… Yes, we can, ma…: ci saranno frequentemente vicini molto più forti dai quali bisogna guardarsi o, addirittura, superpotenze che vengono da lontano. Bisogna mantenere aperte le vie di comunicazione che portano fuori dalla regione ed è necessario affrontare le divisioni interne che rischiano di frantumare lo Stato. Dopo l’epoca di Alessandro il Grande, del regno seleucide e della dominazione romana, Damasco diventa brevemente una delle grandi capitali del mondo arabo sotto la dinastia omayyade, per poi diventare terreno di conquista delle grandi potenze con centro a Baghdad, Il Cairo, Bisanzio, Samarcanda, oppure rassegnarsi a perdere territori strappati da crociati d’oltremare.
Uno dei punti di svolta della storia siriana è strettamente legato alla fortuna delle piste carovaniere che collegavano Cina ed Europa: alla fine del XV secolo, la conquista di Bisanzio interrompe le carovaniere ponendole sotto il controllo ottomano e stimolando la navigazione europea verso l’Africa, l’Oceano Indiano e le Americhe.
Quando, nel 1516, l’impero ottomano strappa la Siria ai Mamelucchi d’Egitto, Damasco viene fortemente riorientata verso La Mecca. Diviene punto di passaggio dell’haj (il pellegrinaggio sacro) in un assetto che dura 400 anni e che, come in tutti gli imperi multinazionali di successo, impone l’ordine e la pace a popolazioni molto diverse per cultura e fede. Come diversi Stati della regione, la Siria è figlia di un sogno e di un’amara delusione: il sogno di un grande regno panarabo, sorto dalla rivolta guidata con abilità da Lawrence d’Arabia, presto disperso dal crudo accordo coloniale franco- britannico Sykes-Picot prim’ancora che finisse la Prima Guerra Mondiale (1916). La Siria si è anche generata con una ribellione (1925-1927), la Grande Rivolta (estesasi a tutte le città oggi martiri), schiantata dai Francesi con gli stessi metodi di Hafez e Bashar el-Assad: bombardamenti d’artiglieria ed aerei, ferro, fuoco e corazzati. Pochi si ricordano che il quartiere di Ghouta, oggi gassato, era stato cinto da filo spinato perché era un corridoio degli insorti verso il centro.Diciannove anni dopo, la Siria diventa  indipendente. Ma la sua fragilissima Democrazia viene violata da quattro colpi di stato. Sotto la guida carismatica di un gigante come Nasser, l’Egitto prova nuovamente ad attrarre il Paese nella propria orbita. Tutto il decennio degli anni ’60 viene funestato da un’instabilità ancora più seria di quella che oggi affligge la Libia.
Poi, d’un tratto, l’ultimo golpe: Hafez el-Assad prende il potere nel 1970 e non lo molla sino al 2000, anno della sua morte e trasmissione del potere al figlio. A parte il ruolo del dittatore nello stroncare la rivolta dei Fratelli Musulmani tra il 1980 ed il 1982, culminata nel massacro di Hama, bisogna osservare le successive manovre di Damasco per crearsi uno spazio proprio: 1973, guerra del Ramadan-Yom Kippur con l’Egitto nel fallito tentativo di recuperare il Golan; 1976, intervento nella guerra civile in Libano, con una presenza trentennale e ripetute battaglie con Israele; 1979-1980, relativa islamizzazione per contrastare gli effetti della Rivoluzione Iraniana; 1980, sostegno all’Iran per controbilanciare l’ascesa di Saddam Hussein come egemone regionale con la guerra Iran-Iraq; 1990, ingresso nella coalizione arabo-occidentale contro Saddam per liberare il Kuwait. Non si può capire cosa sia successo in Siria se non si guarda alla tragica parabola di altri due grandi dittatori: Saddam Hussein Abd al-Majid al-Tikriti e Muammar Muhammad Abu Minyar al-Gaddafi. Come in Siria, sia pure in condizioni differenti, entrambi cercarono di costruire uno Stato arabo capace di superare le vecchie divisioni regionalistiche e familiari che avevano piagato i primi anni dell’indipendenza. Rimasero prigionieri di culture molto più persistenti del loro pugno di ferro e dovettero assistere, prima di morire, alla disgregazione del loro edificio. Il leone di Damasco, come lo jugoslavo Tito, ebbe in sorte di vedere intatto il suo Stato, durare ancora un decennio e poi implodere sotto le contraddizioni di un Governo incapace di riformare, pressato dal vento di libertà suscitato dalle rivoluzioni arabe e dilaniato dalle vecchie rivalità cui si era aggiunta la forza disgregatrice del jihadismo itinerante dai tempi della fine dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1989).
Da questo sostrato, degno dell’attenzione di un Machiavelli, si possono comprendere meglio le dinamiche di questa guerra. Non bisogna lasciarsi confondere da facili semplificazioni a sfondo religioso, come la Mezzaluna sciita o il ruolo degli Stati sunniti nel rifornire i ribelli: il primo punto è che il vecchio ordine mediorientale, basato sul dominio di pochi su molti, sta costantemente logorandosi. La guerra civile del Libano ha aperto la strada, portando gli Sciiti in posizione di potere relativo. Lo stesso è successo in Iraq dopo l’invasione aggressiva degli Stati Uniti ed è quello che stava succedendo in Egitto e Bahrein, dopo l’esempio dato dall’AKP turco. La religione non è che una bandiera identitaria, ma è la redistribuzione del potere e delle risorse che detta le mosse, come del resto è avvenuto in Europa dal 400 al 1700.
La Siria, indebolitasi per ragioni endogene, è diventata preda di un gioco d’influenze, dopo aver alimentato essa stessa la guerriglia e la guerra civile in Iraq durante l’occupazione americana. Quel che è notevole è lo spettacolo di uno scontro sulla pelle della popolazione tra attori relativamente svuotati delle loro forze. I due antichi poli avversari del Cairo e di Baghdad sono indeboliti internamente; l’alleato iraniano, pur deciso nel sostegno, è pronto ad una nuova mutazione interna ed estera forse in vista di un accordo con gli USA; la Turchia, ex stella nascente di un nuovo ordine all’ombra di un islamismo non più di lotta, ma di governo, impigliata nella pace coi propri Curdi e nella protesta mal gestita di una parte consistente della propria popolazione; il Qatar, un nuovo ducato d’Urbino 2.0, bloccato dallo scacco in Egitto dei Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita, trionfante per ora al Cairo, ma incerta sul proprio cammino interno perché l’alleanza fra trono ed altare è diventata sempre meno rispondente alle nuove istanze dei sudditi.
Il vuoto diventa ancor più spinto quando ci si eleva al rango delle grandi potenze. I vecchi artefici dell’accordo Sykes-Picot sono scompagnati dalla crisi economica e dalla subalternità strategica; l’Unione Europea risulta dissanguata dall’assalto finanziario che ha dovuto subire sotto l’ingannevole etichetta di “crisi dell’Euro”; la Russia deve giocare tutte le carte della diplomazia creativa perché ha poco altro in mano e gli Stati Uniti sono costretti a giocare con l’occhio sul tassametro del proprio fiscal cliff.
È in questo vuoto che si è infilato il Vaticano, fresco anch’esso di dolorose stoccate, sfruttando la forza di una visione ideologica (di cui le controparti sono infelicemente prive) e di una diplomazia globale e sottile per proporre un’alternativa totalizzante rispetto alle gloriuzze dei singoli contendenti.
Scommessa di pace o scommessa di guerra? Innanzitutto, partita spietata per la libertà: i Siriani la meritano, ma non possono vedersi rifilare dal gioco delle fazioni n’emporte quoi. Poi, lotta serrata tra alternative esistenti e fantasmi di libertà: chi abbatte un dittatore sa che può scegliere tra i Fratelli Musulmani, i Salafiti, l’anarchia ed un colpo di stato militare (anche la Rivoluzione Francese e quella Russa, mutatis mutandis, ci sono passate). Infine, scontro intorno ad un’autodeterminazione  empre codeterminata da un gruppo d’attori esterni (come, per esempio, il nostro Risorgimento).
Il solo che avesse inizialmente un’idea relativamente chiara su quale Levante fosse desiderabile era Barack Obama: visto il successo della formula autoctona in Turchia, i Fratelli Musulmani sembravano (e sono) la sola classe dirigente organizzata capace di colmare il vuoto. Gli errori di Morsi ed il peso dell’esercito egiziano hanno sbalestrato questa scelta, con il volenteroso aiuto attivo e passivo di molti Governi accecati dal miraggio della stabilità ad ogni prezzo, tra cui Tel Aviv.
Scommessa soprattutto dei Siriani: i frantumati fronti ribelli saranno in grado di trovare una sintesi politica per reggere una lunga guerra civile o per negoziare una transizione gattopardesca? O saranno manipolati come i Libanesi in passato? E l’attuale Governo è in grado di vedere oltre la pace tombale che si sta ripromettendo? Domande senza risposta che attendono impotenti un negoziato su una questione secondaria alle Nazioni Unite ed un parziale successo militare per calcare un altro gradino del fratricidio. È la guerra liquida e non offre nulla di meglio rispetto a quelle del passato.

Alessandro Politi
Nato Defense College Foundation Director, collaboratore per BBC, ABC, RAI NEWS e altre testate internazionali, analista presso il Ce.MI.S.S., docente di Geopolitica presso la SIOI

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