La frammentazione di un Paese

Diego Abenante

L’aggravarsi della crisi negli ultimi due anni ha, dunque, colto di sorpresa molti osservatori, i quali si attendevano che la centralità delle Forze Armate in Siria conducesse ad uno scenario di tipo egiziano, in altre parole ad una transizione controllata dai militari che evitasse la spaccatura del Paese.

Come già accaduto in Egitto con la deposizione del Presidente Morsi da parte dell’esercito e con la deriva cruenta della guerra civile libica, anche in Siria la Primavera Araba sta evidenziando tutte le proprie contraddizioni.
Sorta due anni fa da un sommovimento spontaneo contro il regime autoritario degli Assad, la rivolta ha inizialmente assunto caratteristiche simili alle rivolte in Egitto, Tunisia e Libia. Una sollevazione, dunque, dalle caratteristiche primariamente laiche e dominata dal ceto medio, nonostante un ruolo più attivo svolto nel 2011 dalla rete delle moschee sunnite. In un secondo tempo la rivolta si è, tuttavia, trasformata in un conflitto molto complesso, dalla natura a un tempo tribale, confessionale ed ideologica. Il successivo coinvolgimento dei principali attori regionali nel conflitto ha allontanato, anziché facilitare, una ricomposizione. Non è esagerato affermare, come fa Olivier Roy, che la crisi siriana rappresenti la più grave minaccia all’equilibrio del Medio Oriente dall’inizio della Primavera Araba. Sarebbe, tuttavia, errato considerare la crisi come la conseguenza dell’ennesimo processo di transizione verso la Democrazia. Essa è, altresì, la dimostrazione della fragilità degli Stati mediorientali e della loro tendenza alla frammentazione dinanzi alla penetrazione delle ideologie, siano esse etno-nazionali o islamiste. Se le cause ultime di tale fragilità sono da ricondursi all’artificialità della gran parte delle costruzioni statuali del Medio Oriente – che, come scrisse P. Vatikiotis, sono “Stati senza nazioni” – l’aggravarsi della crisi è anche da ricondurre alle tendenze divisive interne al mondo arabo.
Queste sono certamente ascrivibili alla tensione tra un fronte sunnita, riconducibile in primis alla monarchia saudita, ed uno sciita, incarnato dall’Iran. Ma ciò che è in gioco, di là dalle lealtà confessionali, è la capacità di assurgere al ruolo di potenza egemone nella regione, ruolo per il quale, dopo la crisi egiziana, Iran, Arabia Saudita e Turchia sono in competizione. Il massiccio afflusso di armi in favore dell’opposizione siriana, soprattutto da parte di Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed altri Paesi del Golfo, ed il sostegno offerto al regime da Iran, Russia, Iraq ed Hezbollah, ha favorito la proliferazione di fazioni armate, interessate più che ad un disegno politico, ad acquisire risorse ed una qualche misura di potere sul terreno. L’afflusso di armi sia all’opposizione, sia al regime rende la situazione del conflitto ancora più difficile da gestire e crea un equilibrio militare duraturo, ancorché fluido.
Da questo punto di vista, sono molte le analogie tra lo scenario siriano e quello afgano: come in Asia meridionale, anche in Siria il conflitto si è rapidamente trasformato da crisi locale a regionale. Inoltre, il sostegno militare proveniente dall’esterno verso le opposte fazioni ha spinto la guerra in un vicolo cieco: né il regime di Assad, né il fronte di opposizione sono ora in grado di prevalere militarmente. Al tempo stesso, la natura multipolare del conflitto fa sì che esso sia irrisolvibile senza un processo di riconciliazione che coinvolga tutti i principali attori politici della regione.
L’aggravarsi della crisi negli ultimi due anni ha, dunque, colto di sorpresa molti osservatori, i quali si attendevano che la centralità delle Forze Armate in Siria conducesse ad uno scenario di tipo egiziano, in altre parole ad una transizione controllata dai militari che evitasse la spaccatura del Paese. Un fattore decisivo per comprendere la complessità della crisi è il carattere composito della società siriana ed i rapporti delle varie comunità con il regime. È noto come il regime siriano sia, tra gli autoritarismi mediorientali, quello che presenta le maggiori difficoltà interpretative. Simile, per molti aspetti, ai regimi di tipo “sultanistico”, nei quali la strutturazione del potere è basata su lealtà tribali o confessionali, come nel caso saudita, il regime siriano presenta elementi quali la centralità e la relativa autonomia dell’apparato burocratico-militare che sembrano assimilarlo al caso egiziano. Se, però, in Egitto l’esercito ha mantenuto la centralità del proprio ruolo durante tutta la durata della crisi – dalla destituzione di Mubarak a quella di Morsi – in Siria il ruolo delle Forze Armate appare più ambiguo. Buona parte di questa ambiguità è legata alla difficile definizione dell’appartenenza alla minoranza alawita rispetto alla lealtà al baathismo ed agli interessi materiali di quelle classi sociali legate al regime di Assad. Questi tre livelli, a mio parere, non possono essere considerati come reciprocamente indipendenti, ma si influenzano a vicenda. È da tale natura ibrida dello Stato siriano che deriva, in primo luogo, una difficoltà di lettura della crisi. Se, certamente, si può parlare di un ruolo dominante degli Alawiti, non è chiaro fino a che punto il regime possa definirsi uno “Stato alawita”.
In particolare, le strutture della sicurezza ed i vertici dell’esercito e dell’aviazione, due dei pilastri del regime, sono in gran parte alawite. Tuttavia, la percentuale di membri della comunità è più ridotta tra i quadri intermedi e tra le truppe. Allo stesso tempo, va sottolineato che la maggioranza sunnita non è nella sua totalità opposta al regime e vi sono ambienti del ceto medio ed imprenditoriale urbano che negli anni hanno stretto legami con il regime, soprattutto nel periodo della liberalizzazione economica voluta da Bashar al Assad. La stessa comunità alawita è tutt’altro che monolitica. Essa ha perso gran parte delle proprie istituzioni tradizionali e delle elite intellettuali a causa della politica di cooptazione e di “divide et impera” condotta dal regime. In assenza di una vera e propria comunità alawita autonoma dal regime, appare evidente come questa percepisca nel legame con gli Assad la propria condizione di sopravvivenza. Benché, dunque, non manchino voci critiche, appare improbabile una defezione di qualche rilevanza. Altre due ragioni che spiegano il continuo sostegno degli Alawiti al regime sono la forte presenza negli apparati di sicurezza, il che ha contribuito a proiettare l’immagine di un conflitto settario, e il crescente ruolo, in seno all’opposizione, delle milizie sunnite radicali e salafite. L’intensificarsi di attacchi contro luoghi di culto sciiti nel Paese ha diffuso la convinzione che, in caso di crollo del regime, gli Alawiti sarebbero perduti. Specularmente, il regime di Assad ha facile gioco nel rilevare l’influenza degli elementi islamisti nell’opposizione e nel minimizzare il peso della parte laica in seno alla Coalizione Nazionale Siriana, fondata nel novembre del 2012. Gli attacchi contro villaggi cristiani da parte di milizie islamiste dell’opposizione hanno offerto al regime la possibilità di porsi, dinanzi al Paese e all’Occidente, come baluardo a protezione delle minoranze. Per ciò che concerne l’ingerenza delle potenze regionali, è emersa, in particolare, un’inedita competizione tra Turchia ed Iran. L’attivismo della Turchia nel conflitto rappresenta, forse, il caso più rilevante poiché la politica aggressiva seguita da Ankara, con l’ammassamento di truppe lungo il confine siriano, costituisce una rottura rispetto alla politica estera di moderazione verso la regione mediorientale seguita fino ad oggi. L’attivismo turco rischia, per paradosso, di destabilizzare l’area di confine e di generare malcontento nello stesso esercito di Ankara, sia perché la comunità alawita è presente nella regione anatolica, e dunque anche in territorio turco, sia perché il possibile crollo del regime siriano potrebbe portare alla formazione di un Governo islamista d’ispirazione salafita a Damasco ostile all’interpretazione islamico-modernista sposata dal governo dell’AKP. Dal punto di vista iraniano d’altra parte, Damasco rappresenta l’unica via di accesso allo scenario mediorientale. Teheran è dunque pronta a difendere il regime di Assad ad ogni costo. In parte vi è un ruolo determinato dalla politica anti-sciita di una sezione dell’opposizione siriana, tuttavia l’aspetto più importante è certamente offerto dalla possibilità dell’Iran di svolgere un ruolo nel mondo arabo, capacità garantita unicamente dal mantenimento di un regime non ostile a Damasco.

Diego Abenante
Professore associato di Storia e istituzione dell’Asia – Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Università di Trieste

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