Marta Vuch
La gente ha paura e cerca di mettersi in salvo. Nascono piccoli accampamenti spontanei con ripari di fortuna. Distribuiamo abbigliamento e generi di prima necessità, ma il grande timore è rappresentato dall’inverno.
Una guerra umanitaria, nella quale i civili vengono usati, ancora una volta, come pedine. Un giorno, un esperto di strategie militari ha giustificato con poche parole il mio orrore nel sentire i racconti delle donne vittime del conflitto in Libia: “In guerra tutto è lecito”. È terribile guardare i civili e la loro sofferenza e ritrovare scenari e copioni già visti su altri terreni. Centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini, fino a raggiungere il numero impressionante di 2.000.000 di persone che in pochi istanti vedono la loro vita cambiata, vittime di qualcosa caduto dal cielo che ha sterminato le loro famiglie. Li vediamo nei campi, quando scende il silenzio della sera e la tranquillità della notte viene interrotta dai pianti dei bambini, dai loro sogni interrotti dagli incubi causati da traumi indelebili. Ricordano le notti nelle loro case, gli aerei che portavano morte. Sono bambini cresciuti in un Paese in guerra, gli adulti di domani. Crescono pensando alla vendetta, a fare agli altri ciò che hanno subito dai loro fratelli.
Molto si capisce di una guerra guardano solo gli aiuti umanitari. Scatoloni con loghi stampati che arrivano da tutte le parti del mondo, pochi aiuti “sinceri” e molti accordi internazionali che si celano in pacchi alimentari salvavita. Guardo quelle donne e quei bambini, i loro visi e la loro lotta per far sembrare tutto normale. Piccoli gesti difficili. Con cura continuano ad occuparsi dei loro piccoli, sentendosi in qualche modo colpevoli di non poter dar loro la pace e la protezione di una casa sicura. Qui il loro amore non basta. Ho visto bambini per strada con le mani tese, seduti in città sporche.
Qualcuno si ferma e offre la sua solidarietà. Ho visto rifugiati rimboccarsi le maniche e andare nei campi per guadagnare quel poco che a loro basta per sopravvivere. Ho visto bambini sorridenti. Sorrisi bellissimi traditi da occhi spenti. Portare aiuto a queste persone travalica il fatto stesso di consegnare dei beni di prima necessità. È un gesto di speranza, un modo per dire loro che non sono soli, che il mondo non li ha dimenticati. In questi giorni osserviamo con preoccupazione i confini che stanno per scoppiare. La gente ha paura e cerca di mettersi in salvo. Nei campi lungo la frontiera turca c’è grande preoccupazione. Nascono piccoli accampamenti spontanei con ripari di fortuna. Distribuiamo abbigliamento e generi di prima necessità, ma il grande timore è rappresentato dall’inverno. Lo scorso anno molti bambini sono morti per il freddo. Lo scorso anno i numeri erano ben diversi: nel giugno del 2012, il campo di Atma accoglieva 6.000 persone; oggi sono 25.000. Soffre la gente nei campi, ma soffre tutta la regione. Ad Atma, le persone ufficialmente accolte nel campo sono 14.000. Le altre arrivano dai villaggi circostanti, in cerca di un pasto o di generi di prima necessità. Al campo, gli aiuti prima o poi arrivano. Raccontare la vita della gente, le loro sofferenze è impossibile. Sembrano fantasmi, esseri umani svuotati della libertà di vivere, creature la cui speranza si è tramutata in paura ed incertezza. Il vero dramma del popolo siriano è quello di non sapere chi siano i veri nemici, di vivere in una stato di attesa che si protrae ormai da due anni nella speranza che qualcosa cambi ed una magia riporti la pace nella loro terra.
Ho conosciuto Zahra, una bambina di due anni, e Melek, un ragazzo di dieci. Ricorderò le loro parole. Zahra nascondeva le caramelle. Le avrebbe mangiate tutte, non sentiva il loro sapore da tantissimo tempo. Non voleva darmene una, erano troppo preziose, quel “tesoro” – diceva – spettava alla sua mamma e al suo fratellino. Melek ci raccontava di come era stato ferito, dell’intervento e di come non volesse portare la protesi. Aveva perso una gamba in un bombardamento. “Non posso più tornare a scuola, mi vergogno, non sarò mai più un bambino”.
Marta Vuch
Responsabile Progetti Umanitari di Auxilia Onlus