Memorie scolastiche inattuali (1963-1974)

di Francesco Giardinazzo

Cara Maestra, singolo di Luigi Tenco del 1963, costituisce il necessario pretesto alla riflessione che segue e il cui corollario sarà, dieci anni dopo, un pezzo di Edoardo Bennato. Dev’essere stato fra la quinta elementare e la prima media che ho letto Cuore di Edmondo De Amicis, un “classico” della letteratura dell’Italia unita. Anzi, direi uno di quei libri che hanno cercato – con quanto successo? – di rendere l’Italia da un coacervo disorganico ad un disorganico coacervo. All’epoca non avevo ancora adottato le sottili interpretazioni che un giorno mi avrebbero portato a ritenere nulla la differenza fra “mistero” e “ministero” – grafia a parte -. All’epoca, addirittura, credevo che a scuola si imparasse, e che ciò che ci veniva elargito fosse prezioso distillato di storie ben più complesse ed antiche delle nostre giovani vite. Non pensavo proprio così, ma più o meno era così. Bene, mi tocca Cuore, e leggo. Molti anni dopo, mi sono chiesto come sarebbe stata anticipata la mia percezione della letteratura se mi avessero fornito L’isola del tesoro, Moby Dick o Delitto e castigo. L’avrei fatto di lì a poco, in effetti, ma ritengo sia stato salutare distruggermi sulle pagine di De Amicis.
Tutto mi sembrava abnorme, dalla cornice ai racconti mensili che, infallibilmente, attendevano Enrico Bottini & Co. oltre al tormento di una famiglia psicotica che ti legge i quaderni e si sente in dovere di scrivere lettere e note su come devi vivere e su ciò che ti deve piacere. Se, in linea generale, la classe e l’istituto del romanzo assomigliavano, in parte, alla realtà che vivevo – a parte le circa tredici evoluzioni socio- culturali di Franti che avevo conosciuto nel frattempo – tutto, a partire dallo stile, mi sembrava faticoso e, a tratti, francamente irreale. Per me che divoravo i romanzi di Salgari e Conan Doyle (la mia personale minima biblioteca e quella del mio nonno materno si sono irrimediabilmente fuse nei miei ricordi) quella prosa mi sembrava un vero e proprio attentato alla pazienza.
Non si trattava del diario di un anno di scuola, ma di un registro di una colonia penale (tipo Papillon) per adolescenti dove primeggiavano esempi sovraumani di dedizione e buonismo a lato di quotidiane prevaricazioni, amoralità, tentativi di raddrizzare il legno storto dell’umanità ricorrendo, appunto, a bacchette e righelli: quando bisogna allungare uno scapaccione, bisogna darlo – buono e benedetto! Anche questo potevo capirlo e ne vedevo la realtà quotidianamente. Chi avrebbe mai detto che, un giorno, sarebbero stati i genitori a suonarle ai docenti? Ancora: i vari Garrone, Precossi, Votini, la maestrina dalla penna rossa che, col tempo, ho assimilato alle maîtresses del burlesque (tanto, una così, per forza deve avere una doppia vita, e quest’ultima senz’altro più vera dell’altra), Franti, naturalmente e principalmente, e, infine, il severo maestro, generato da un incrocio fra Lapalisse ed un predicatore quacchero piemontese, mi affascinavano nel senso dell’attrazione verso ciò che è orribile. I racconti, poi… vedette lombarde, sangue romagnolo, l’on the road de noartri dagli Appennini alle Ande, cioè fra due realtà geograficamente ed economicamente depresse del globo (anche quella era globalizzazione: il disagio in chiave mondiale) alla ricerca di madri eroiche che, naturalmente, venivano rintracciate in punto di morte. Era già il cinema di Matarazzo-Nazzari, il Cuore filmico del nostro buonismo strapaesano, i cui rigagnoli giungono a noi sotto forma di “bamboccioni”, “sfigati”, eccetera. Come si può sopravvivere, inoltre, all’immane senso di colpa che scaturisce da quelle pagine e che si fissa nella tua giovane coscienza – non ancora autocoscienza – e che ti porta a desiderare di emulare la vedetta, se almeno ci fosse la guerra (un desiderio sproporzionato per realizzare un desiderio mimetico così banalmente eroico), a ricopiare indirizzi tutte le notti, se non esistessero già gli elenchi del telefono (all’epoca) e, soprattutto, se questo fosse mai stato il lavoro di tuo padre. Quanto alla letteratura odeporica, dico soltanto che, la prima volta in cui mi sono allontanato realmente da casa, era per fare l’Università. Comunque, venire dalla periferia dell’impero è sempre troppo a qualsiasi età. La mia epopea poteva intitolarsi dall’Aspromonte al Colle di San Luca (Bologna). Quanto al resto della fauna umbertina, maestrine senza penna rossa, ma agghindate in modo altrettanto disperatamente eccentrico, ce n’erano molte, e credo di essermi smarrito fra tanta copia, memorizzando soltanto alcuni svolazzamenti al napalm di eaux de parfums credo somministrati con larghezza e precisione dichiaratamente autopromozionale. Non mi restava che l’unica realtà plausibile, lui, Franti. Dicevo che ne avevo classificato circa tredici varianti, tutte peggiori rispetto al modello, evolute per mezzi ed epoca, sobillati da riviste e fumetti, familismo amorale a colazione, pranzo e cena, incartapecoriti nei cinema anche durante le proiezioni loro potenzialmente vietate, in tutto simili a quei ragazzini che Manzoni descrive nel capitolo in cui Don Rodrigo va a trovare l’Innominato per fargli rapire Lucia (e, considerando l’epoca, il luogo e i tempi, non era nemmeno così lontano dalla realtà): banditi in miniatura, già predisposti ad imprese degne di tali premesse. Intendo dire che, nella mia percezione, queste pagine erano totalmente più vere di quelle di De Amicis (e vatti a fidare del realismo, poi). Se Franti è l’unico aggancio con la realtà, è chiaro che questi finisce per smettere di essere un personaggio fittivo per assumere i lineamenti ben più coinvolgenti di quello che ti può capitare come compagno di banco da qui alla laurea. Il necessario corollario, mi sembra possa essere solo In fila per tre di Edoardo Bennato (I buoni e i cattivi, 1974).

«Presto vieni qui, ma su non fare così / ma non li vedi quanti altri bambini / che sono tutti come te / che stanno in fila per tre / che sono bravi e che non piangono / mai! // È il primo giorno però / domani ti abituerai / e ti sembrerà una cosa normale / fare la fila per tre, risponder sempre di sì / e comportarti da persona civile! // Vi insegnerò la morale a recitar le preghiere / e ad amar la Patria e la bandiera / noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori / e discendiamo dagli antichi romani. / E questa stufa che c’è basta appena per me / perciò smettetela di protestare / e non fate rumore, e quando arriva il direttore / tutti in piedi e battete le mani. // Sei già abbastanza grande / sei già abbastanza forte / ora farò di te un vero uomo / ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l’onore / ti insegnerò ad ammazzare i cattivi. / E sempre in fila per tre, marciate tutti con me / e ricordatevi i libri di storia / noi siamo i buoni, perciò abbiamo sempre ragione / e andiamo dritti verso la gloria. // Ora sei un uomo e devi cooperare / mettiti in fila senza protestare / e sei fai il bravo ti faremo avere / un posto fisso e la promozione. / E poi ricordati che devi conservare / l’integrità del nucleo familiare / firma il contratto, non farti pregare / se vuoi far parte delle persone serie. // Ora che sei padrone delle tue azioni / ora che sai prendere le decisione / ora che sei in grado di fare le tue scelte / ed hai davanti a te tutte le strade aperte. / Prendi la strada giusta e non sgarrare / se no poi te ne facciamo pentire / mettiti in fila e non ti allarmare / perché ognuno avrà la sua giusta razione. // A qualche cosa devi pur rinunciare / in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere / perciò adesso non recriminare / mettiti in fila e torna a lavorare. / E se proprio non trovi niente da fare / non fare la vittima se ti devi sacrificare / perché in nome del progresso della Nazione / in fondo, in fondo puoi sempre emigrare.»

Solo un decennio separava quelle due canzoni e molto di più dai nostri giorni. Ma ognuno vede da sé quanta e dolorosa attualità abbiano ancora da comunicare, non ultimo l’invito ad emigrare oggi di moda fra numerose teste pensanti, e perciò disperate, di questo nostro malconcio Paese. In effetti, l’inattualità a cui allude il titolo deve essere ovviamente accolta nel senso nietzschiano, perché niente può essere più attuale di ciò che fastidiosamente si oppone al conformismo che non capisce la differenza fra “nuovo” e “futuro”.

di Francesco Giardinazzo
Professore a Contratto di Antropologia dei processi comunicativi e Letteratura Italiana
Università Alma Mater Studiorum di Bologna

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